Giuliano Cenci, il mancato Disney italiano
di Damiano Fedeli
Come in quella del suo Pinocchio, anche nella sua storia non mancano i gatti e le volpi. Sennò, «a quest’ora racconta senza falsa modestia, ma col sorriso dolce lei starebbe parlando col Disney italiano ». Eppure Giuliano Cenci, classe 1931, il Disney italiano lo è. Per davvero. Fiorentino doc, è fra i padri (per alcuni «il» padre) del cinema d’animazione italiano, con nomi come Bruno Bozzetto (inventore del Signor Rossi), i fratelli Nino e Toni Pagot (autori di Calimero, Jo Condor o del draghetto Grisù), e Osvaldo Cavandoli, creatore della indimenticabile Linea. Con loro diede vita nel ’63 a Milano all’Isca, Istituto superiore per il cinema di animazione: «Eravamo giovani ma già qualificati, lavorando a Carosello».
Già, perché nel 1957, Cenci aveva creato la prima pubblicità animata televisiva, per i frigoriferi Philco, inaugurando a un filone che segnerà Carosello. E da allora è stato per lui un continuo inventare, lavorando rigorosamente a mano, come un artigiano. «Avatar? No, non l’ho visto. Per carità, rimango incantato dalla tecnologia digitale, ma spesso se ne abusa».
Era la fine degli anni 30 quando «Dopo aver visto e rivisto la Biancaneve di Disney, dissi alla mamma: Voglio disegnare cartoni animati!». Di scuole non ce n’erano, di botteghe, neppure. «Anton Gino Domeneghini aveva completato nel 1949 la sua Rosa di Bagdad, primo lungometraggio d’animazione europeo, ma chi lo sapeva? Decisi di fare da me ». Il primo cartoon lo realizzò nel 45, studente al Liceo artistico. «Era uno di quei libriccini che si sfogliano velocemente e danno un’animazione. Ci lavorai giorno e notte. E feci un Paperino che camminava in un bosco e, distratto da un pappagallo, andava a sbattere su un tronco». Nei cinema si era fatto amici gli operatori. «Mi regalavano spezzoni di pellicola inceppata. Li portavo a casa per studiarne i segreti, fotogramma per fotogramma. Per far pratica, mio babbo e mio fratello Renzo, che mi ha poi sempre assistito con le sue invenzioni, mi costruirono una cinepresa, bruttina, ma efficientissima. In pochi anni diventai un professionista, tutto da solo». Siamo alla metà degli anni ’50 e Giuliano mette su col fratello una piccola ditta di pubblicità. Arrivano i Caroselli ma con questi «non tanti soldi. Così, di giorno lavoravo come operaio del Comune di Firenze, a fare le strade con la pala. La sera a casa disegnavo, con le mani tremanti per la fatica. Mi aiutava mia moglie Albertina, con cui ho appena festeggiato 56 anni di matrimonio. Eravamo innovativi. Per Peppe, parrucchiere di piazza Leopoldo, mescolai per la prima volta in Italia figure vere, una modella, con figure disegnate, animate: la ragazza usciva dal salone e un cupido le faceva un fischio di ammirazione».
È il 1967. Per Cenci è il momento di mettere mano al sogno di ogni animatore: il lungometraggio. «Pensai a Pinocchio. Quello di Disney non era fedele al Collodi, era una favola tirolese… Preparammo quattro-cinque minuti di scene pilota. Le proiettammo allo Stensen a una platea di possibili investitori, c’era anche il presentatore Corrado». Occorrevano circa 400 milioni di lire, secondo i calcoli di Cenci, non tanto lontani dal vero (il film ne costò 470). «I finanziatori potevano acquistare Quote di associazione in partecipazione e venire a controllare lo stato dell’arte. Ciascuno avrebbe preso parte agli incassi. L’idea piacque e in più tempi si trovarono i soldi». La lavorazione avvenne in un appartamento a Coverciano. Cinque disegnatori, cinque anni di lavorazione, settecentomila disegni fatti a mano per 93 minuti di cartone animato. E poi, a Roma, le musiche di Renato Rascel (che era anche voce narrante) e Vito Tommaso. E il doppiaggio alla Cdc con le voci fra gli altri di Lauro Gazzolo, Roberta Paladini, Vittoria Febbi e Ferruccio Amendola. Nacque così «Un burattino di nome Pinocchio», capolavoro riconosciuto del cinema di animazione italiano.
L’avventura (brutta) del film comincia qui. Settembre 1971. «Dopo la presentazione alla stampa, Goffredo Lombardo, direttore generale della Titanus, mi disse che lo avrebbe distribuito lui in tutto il mondo. Per scrupolo consultai i miei finanziatori. Il più grosso dei quali mise il veto: no alla Titanus. Fu la rovina del film. Pinocchio uscì con gli indipendenti regionali, malamente. Addirittura a Firenze era proiettato all’Arlecchino, cinema a luci rosse, che le famiglie evitavano. Dopo un’uscita di questo tipo, all’estero ce lo comprarono per un boccon di pane. Eppure ha circolato in mezzo mondo. Anche in modo rocambolesco, come in Egitto, dove arrivò una copia rubata presentata, alla mia insaputa, all’ambasciata italiana».
Dopo una assurda vicenda giudiziaria che coinvolge anche la Rai, cui un personaggio, poi sparito, avrebbe venduto i diritti senza averli, di quel Pinocchio, incredibilmente, si sono perse le tracce da vent’anni. Certo, Cenci ha lavorato a decine di animazioni, da Calimero, al Draghetto Grisù, dalla Pimpa alla Gabbianella e il Gatto. Ha scritto un libro, «Firenze segreta», edito da Sarnus, che è andato a ruba. Ora collabora con una scuola di cartoon fiorentina, la Nemo. Ma il suo cuore è sempre a quel Pinocchio che Carlo Rambaldi, padre di ET, ha definito «l’unico vero». «Sto ancora dando la caccia a quelle pellicole, per farle restaurare, prima che sia troppo tardi», spiega ancora Cenci. Gli occhi non smettono di brillargli di vivacità. «La sceneggiatura per un altro lungometraggio ce l’ho, pronta. Se un’organizzazione, non profit, naturalmente di giovani volesse produrlo son pronto a campare cent’anni!».