Giovanni Galli, la lezione di uno che non molla mai
di Sara D’Oriano
Di maglie ne ha indossate tante, dentro e fuori dal campo di calcio, e con ognuna ha saputo giocare con la sua curiosa personalità ma senza mai tradire se stesso e le sue radici. Il curriculum di Giovanni Galli è lungo e ben conosciuto, ma si può parlare per ore e ore con lui del suo impegno in politica, della sua carriera calcistica, della sua famiglia e di Niccolò, il figlio perduto prematuramente a 17 anni per incidente stradale, senza che il fardello della sua esperienza appesantisca e influenzi boriosamente la conversazione.
«Da bambino non sognavo di fare il calciatore, mi è capitato, come finire sotto una valanga o nella corrente di un fiume, quasi non me sono accorto», scrive nel suo libro, «La vita ai supplementari» (Rizzoli, 160 pagine, 15 euro) e a sentirlo parlare è davvero così. La naturalezza con la quale ha indossato la sua prima maglietta da calciatore, negli anni ’70, quando «non è che ci fossero molti diversivi oltre la scuola e il pallone», se l’è portata sempre dietro, in ogni partita, che fosse nel campetto del quartiere o nei grandi campi dei mondiali, di Milano o di Firenze. Una naturalezza per la quale il campo di calcio è una casa, chi lo vive i suoi familiari, e quei pali da proteggere sempre gli stessi, indipendentemente dal contesto di gioco. Uno stupore, si potrebbe dire quasi ingenuo, che gli ha permesso di affrontare senza paura o ansia gli incontri in quello che ha sempre considerato il suo ambiente naturale, «e non chiedermi perché, non ti so rispondere, forse sono nato per questo e questo ho fatto».
Da Pisa, sua città natale, agli stadi dei mondiali di calcio del 1982, passando attraverso quelli di Firenze, di Milano, di Napoli, di Torino e di Parma, vincendo di tutto uno scudetto, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea e una Supercoppa italiana Giovanni ama ricordare piuttosto le relazioni intessute con i compagni e gli allenatori, svelando gli aspetti più umani e semplici di un mondo che siamo abituati a considerare patinato e lontano: «Non smetterò mai di dire che ho avuto la fortuna di poter scegliere sempre ciò che ritenevo adatto a me e di trovare persone con le quali mi sono sempre trovato bene».
Fino a quando, un banale incidente stradale gli porta via il figlio primogenito, Niccolò, il 9 febbraio del 2001. Niccolò aveva 17 anni ed era una promessa del calcio al pari del padre: «Quando si perde un padre o una madre si diventa orfani; se si perde la moglie o il marito, si diventa vedovi, ma quando si perde un figlio è una cosa talmente innaturale che non esistono parole per definire chi rimane di qua. E io, paradossalmente, non sapevo più dare una definizione alla mia condizione. È un dolore dal quale non si esce se ci si ferma a pensare che i 17 anni del passaggio di Nicco su questa terra siano stati fine a se stessi. Ci sono troppi elementi non naturali in tutto questo. Per questo io penso piuttosto che esista un disegno, che Niccolò doveva, per qualche ragione a noi sconosciuta, cambiare percorso ma che poi, nei tempi supplementari di questa grande partita che è la vita, avremo modo di ritrovarci tutti insieme ed io potrò di nuovo riabbracciarlo».
Un senso della famiglia così forte che Giovanni ha col tempo cementificato insieme ad Anna, sua moglie, e a Camilla e Carolina, le altre due figlie. «Con Anna siamo praticamente nati insieme e la nostra fortuna in tutta questa vicenda è stata il nostro amore. Senza di esso, che per me significa rispetto, dialogo, senso di responsabilità e impegno, la mia famiglia non avrebbe potuto superare questa immensa prova». La profonda serenità con la quale oggi Giovanni parla di Niccolò è una serenità a lungo sofferta e ricercata e non lo nasconde: «Se c’è una cosa che mi pento di aver fatto è di aver pianto poco, ma dovevo farmi forza, per me e per tutti noi, e l’unico momento in cui potevo piangere era durante la doccia: lì le lacrime si mescolavano all’acqua che scendeva, non lasciavo traccia e quando uscivo, potevo riprendere il mio ruolo di padre e marito».
In tutta la sua esperienza, Giovanni non ha mai avuto modo di allenare squadre giovanili, ed è un’esperienza che, non nega, avrebbe amato fare: «Ai giovani mi piacerebbe trasmettere la cultura della sconfitta. Chi dice che la cultura della sconfitta è da deboli non ha capito niente. Perdere ti rende più forte nell’impegno e ti insegna il valore di ciò che fai, della vita e di ciò che ti circonda. È la grande rivoluzione, la sfida che mi piacerebbe portare, attraverso il mio esempio, nello sport e nella vita di tutti i giorni».
Quella presentazione con l’amico rivale
Insieme su quel palco sembrano quasi usciti fuori da una delle celebri pellicole di Don Camillo e Peppone. Matteo Renzi e Giovanni Galli, rispettivamente sindaco di Firenze e capogruppo del maggiore partito di opposizione, si sono ritrovati insieme per parlare del libro di Giovanni, «La vita ai supplementari», lo scorso 19 marzo alla Biblioteca delle Oblate di Firenze. La loro amicizia è indubbia così come lo è altrettanto la loro diversità di pensiero su Firenze e la sua crescita: «Stimo Renzi dice Giovanni per cui evito di parlare di come gioca a calcio».
Nonostante non siano mancate le critiche sulla scelta di questa «bizzarra» accoppiata per presentare il libro dell’ex calciatore, non si può dire che l’incontro non sia stato, una volta tanto, una bella dimostrazione di come la politica possa anche passare attraverso il canale del rispetto e perché no, dell’amicizia. Strappando anche qualche risata: «Giovanni, hai scritto una cosa nel libro che non mi è piaciuta più di tanto, però devo ammettere che quando ho saputo che avrei avuto te come avversario alle elezioni, ho saputo fin da subito che non sarebbe stata una battaglia facile, perché sapevo di trovarmi davanti un campione, non solo sportivo, ma anche nella vita, uno che non molla facilmente».
Di «La vita ai supplementari», Renzi ha poi sottolineato: «È un libro che ha tante sfaccettature diverse, in cui però emerge compatta la sostanza di Giovanni. Una qualità che ho sempre ammirato in lui e che puntualmente dimostra nel suo impegno nelle scuole attraverso la sua Fondazione. In questo libro si trova il calcio, ci si commuove sul dolore della perdita, si scopre un’umanità semplice e genuina attraverso il valore della fede, ma soprattutto esce fuori un delicato senso della famiglia, qualcosa di cui è molto importante parlare perché costituisce la base della società, che oggi sembra essere dimenticato, sovrastato da una solitudine impregnante. Giovanni, con un linguaggio semplice e scorrevole, lo fa molto bene e io gliene sono grato».
In un mondo anestetizzato, che fa di tutto per allontanarci dalle riflessioni fondamentali sul senso della vita e su quello della morte, ha poi continuato il sindaco, «Giovanni ha il pregio di farci riflettere e ci propone questo inno d’amore per la famiglia e i figli, che regala un bel senso di speranza e di serenità».
«Oggi ci si dà del tu e ci si stringe la mano ha infine concluso Galli e ti ringrazio per essere qui e per spendere queste parole per il mio libro e per me, ma lunedì, caro signor Sindaco, ci rivedremo in Palazzo Vecchio, ci daremo del Lei e non ci saranno sconti».