Giorno del Ricordo, la storia di Claudia: l’esodo dall’Istria e la vita da profuga a Pisa
«Mia madre non è mai più voluta tornare in Istria». A parlare, a ricordare i giorni dell’esodo iniziato nel 1949 è l’esule istriana Claudia Marangoni, 85 anni, che oggi abita a Pisa insieme alla sorella minore. Lei era bambina e la sua famiglia – composta dai genitori e tre figli – in quei drammatici giorni viveva ad Orsera. Più o meno a metà strada tra Rovigno e Parenzo in quella che oggi è la Croazia.
La loro storia è simile a quella dei 350 mila esuli che hanno lasciato le loro terre native italiane in Istria, Dalmazia e parte della Venezia Giulia a causa del Trattato di Parigi, firmato il 10 febbraio 1947. Le nazioni vincitrice della Seconda guerra mondiale (Stati Uniti, Russia e Inghilterra) decisero che l’Italia dovesse cedere quei territori alla Yugoslavia del Maresciallo Tito, alleato dei russi.
La vita di Claudia e della sua famiglia prima della guerra scorreva tranquilla. La convivenza con le persone di origine slava era buona. «Mia madre aveva un negozio di alimentari e un forno – ricorda –. Mio padre invece era contadino. Vivevamo in una casetta a due piani. Eravamo felici, il paese era tranquillo. E durante la guerra abbiamo aiutato tutti, anche gli slavi». Poi iniziarono i primi momenti di difficoltà. «Durante la guerra – racconta Claudia – i partigiani comunisti di Tito si nascondevano nelle campagne: tutti avevamo paura di quello che poteva capitarci. Di notte gli adulti facevano i turni di guardia alla città. Ma di giorno dovevano lavorare. Così furono incaricati 25 giovani di sorvegliare Orsera». Quando la guerra finì, si consumò il dramma. «I partigiani – continua – entrarono in città, catturarono i nostri giovani che montavano di guardia e li misero in carcere a Parenzo. Ogni giorno andavamo a trovarli ma non ce li hanno mai fatti né vedere né incontrare. Poi, un giorno d’estate, li deportarono nelle prigioni di Pisino, in condizioni miserabili e sottoponendoli a umiliazioni di ogni tipo. Dopo una settimana li andammo a cercare ma purtroppo non c’erano più. Li avevano già “infoibati” insieme a molte altre persone». Infoibati: un termine che si aggiunge al catalogo degli orrori del ’900 e che descrive la drammatica fine di molte persone colpevoli solo di essere italiane e di essere viste come un ostacolo al disegno di egemonia del comunismo di Tito. In molti conclusero la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione oppure furono uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura gettati, vivi o morti, nelle profondità delle foibe.
«Iniziò un periodo davvero molto nero per noi italiani in Istria – sottolinea Claudia Marangoni, continuando il racconto –. Tutte le cose di nostra proprietà ci furono tolte e passate allo Stato. Anche il negozio di alimentari di mia madre fu chiuso. Poi ci offrirono la triste alternativa: o diventavamo jugoslavi oppure ce ne dovevamo andare. Noi scegliemmo di tornare in Italia. E come la nostra famiglia praticamente tutti gli altri: Orsera contava 2.000 abitanti. Solo una famiglia italiana è rimasta. Le altre, in totale una quarantina di persone, erano famiglie miste che non potevano venire via». La bella città di mare di Orsera si svuotò e, nel 1949, prese il via un esodo di massa. «Le nostre case – spiega l’esule istriana – furono poi occupate dagli slavi, in particolare sloveni. Nella nostra, che aveva il negozio sotto e l’abitazione sopra, ci fu realizzato un piccolo albergo».
Claudia e i suoi familiari furono trasferiti in Toscana, a Migliarino pisano in un campo di prigionia americano trasformato in campo di accoglienza. Un periodo di grande miseria: «Per quattro anni abbiamo vissuto in cinque persone, in una baracca di tela. Il bagno comune era all’esterno. E si andava a prendere il cibo alla cucina di campo. Poi ci hanno portato nelle colonie di Calambrone. Infine ci è stata assegnata la casa popolare a Pisa». Ma c’era ancora tanta diffidenza verso gli esuli. «Una volta – ricorda Claudia – siamo andati a prendere un gelato e ho sentito una donna dire al bambino di comportarsi bene altrimenti “ti faccio mangiare da un profugo”. Però noi istriani siamo gente tranquilla. E così ci siamo ricostruiti una vita, nuove amicizie, una famiglia, un lavoro». La vita ha ripreso a scorrere: «Mia mamma ha aperto un negozio di alimentari, mio padre faceva l’operaio. Io mi sono diplomata in un istituto di suore. Mia sorella e mio fratello non hanno studiato e hanno aiutato la mamma alla bottega».
Ma in famiglia non si parlava dell’esodo, delle foibe: «Non era un argomento che si affrontava. Era come se avessimo vissuto un incubo, come se ci sentissimo scampati a un grosso pericolo. Nessuno aveva voglia di ricordare quella sofferenza». Recentemente, con l’istituzione del Giorno del Ricordo, c’è più coscienza di quello che è accaduto. «Prima, quando dicevo di essere esule istriana nessuno capiva. Adesso – sottolinea –, quando racconto di essere scampata alle foibe, quasi tutti hanno presente quello che abbiamo passato con l’esodo». Certe cose però riemergono quando meno te le aspetti. E il dramma vissuto da piccola ha investito Claudia quando aveva 60 anni. «Sono dovuta andare dallo psicologo – racconta –, era come se avessi perso la mia identità: non mi sentivo italiana, non mi riconoscevo. Ero rimasta bloccata ai miei ricordi di bambina, al mio paesino meraviglioso con il suo mare, le sue ginestre, i suoi colori».
Il primo ritorno ad Orsera «con tanta emozione» è stato 16 anni dopo l’esodo. Poi, nel corso degli anni, la famiglia è tornata a far visita al paese di origine perché là, racconta l’esule istriana, «abbiamo ancora degli amici». Periodicamente Claudia, il padre, la sorella, il fratello con la sua famiglia, i tre figli e poi i quattro nipoti hanno fatto il viaggio inverso rispetto a quello del 1949. Ma la mamma ha scelto di non tornare in quella terra che una volta era casa. «Non ha mai più voluto rivivere quella sofferenza», conclude Claudia Marangoni.