FABRIZIO GHELLI: L’agricoltura come cultura

DI FRANCESCO GIANNONIFabrizio Ghelli è discendente di Cosimo Ridolfi, uomo del Risorgimento ma soprattutto «inventore» dell’agricoltura moderna. Lo vado a trovare nel palazzo avito di Meleto, fra Empoli e Castelfiorentino, che una volta fu il centro di rivoluzionarie sperimentazioni tecnologiche e agronomiche.Ghelli mi fa entrare e, scusandosi per dovermi far attendere, ma è capitato un imprevisto, mi fa accomodare in giardino. Altro che giardino! Disposto su piani diversi, accoglie eleganti aiuole delimitate da rigogliose siepi di bosso, statue di pastori, ninfe e divinità silvestri decorano il prato, oltre il quale c’è un bosco di forti lecci. Alcuni pavoni negli smaglianti colori primaverili mi osservano timidi e curiosi: tanto bello è il loro piumaggio, tanto brutto è il loro lamentoso richiamo. Balestrucci, rondini, uccelli di ogni tipo volano nel cielo azzurro e ancora più limpido dopo le piogge dei giorni scorsi. Aspetto un po’. Mi raggiunge la moglie dell’architetto, la simpaticissima signora Charlotte, tedesca di Bielefeld; insieme a lei un levriere irlandese e uno springerspaniel: giocano, fanno la lotta, saltano le siepi, hanno sicuramente spazio a disposizione per sfogare la loro simpatica esuberanza.

Dopo una ventina di minuti arriva Ghelli, scusandosi ancora. Ci sediamo su una panchina in pietra serena sotto un leccio secolare e iniziamo la chiacchierata.

Parlare del grande avo è inevitabile. Qual è l’eredità spirituale che le ha trasmesso? È sicuramente costituita da un grande amore per la scienza, per la natura e dalla volontà di lasciare qualcosa a chi viene dopo. Mi racconta di essere stato da poco a Bibbiani, una villa che Ridolfi aveva acquisito dai Frescobaldi. Vi aveva creato un giardino meraviglioso, sistemandovi, fra l’altro, delle sequoie che ora hanno 150 anni. Piantare una sequoia nella campagna toscana… mah, oggi può sembrare strano ma lui lo faceva per sperimentare e perché pensava al dopo.

«Anche io cerco di fare qualcosa che rimanga: la società di oggi, quella dei consumi frettolosi e superficiali, non è la mia. Io non potrò dare un’eredità come quella di Cosimo Ridolfi, ma se mi riesce mantenere e lasciare l’azienda così com’è, sono contento».

Su una superficie di 9 ettari è stato concluso un restauro dell’antica «sistemazione a spina»; questa è una tecnica inventata da Testaferrata, uno scienziato che lavorava con e per Ridolfi: serve a diminuire le pendenze del terreno, riempiendo con un processo naturale i calanchi privi di terra, evitando e compensando l’erosione e il dilavamento del terreno. Riassumendo, e sperando di essere stato chiaro, serviva per portare terra e umidità dove mancavano. Questo lavoro, spiega Ghelli, «l’abbiamo realizzato per i posteri e sono venute diverse scuole a vedere. Sono molto contento di averlo fatto, anche se dal punto di vista economico è tutta una rimessa».

Ridolfi, ripetiamolo, ha praticamente «concepito» l’agricoltura toscana moderna (anche se ora, ovviamente, è molto cambiata): ha progettato l’aratro «voltaorecchie», quello che, opportunamente perfezionato, è impiegato ancora oggi. E ci sarebbe l’idea, con il comune e la provincia, di istituire il «museo dell’aratro»: vedremo… Ridolfi ha importato la prima vite americana, che non viene attaccata dalla peronospera oggi trattata con ramati e altre medicazioni; la vite americana è quella che fa il Fragolino; basta una ciocca di quest’uva a dare al vino un deciso sapore di fragola: per questo in Toscana è proibita, mentre in Friuli ci fanno un vino.

Ridolfi era anche docente di agronomia. Per poter mostrare agli studenti in qualsiasi stagione i vari tipi di frutta, si fece creare da Calamai, un famoso modellista, tanti esemplari in cera di vari generi di frutta. Quello che oggi è interessante, al di là della raffinata bellezza dei modelli, è che molte delle specie rappresentate, sono completamente sparite: così, con questi modelli in cera sarà organizzata una mostra, forse nel 2007.

Ma qual è la condizione dell’agricoltura toscana secondo il nostro architetto-agronomo? Un po’ di sano e realistico pessimismo non guasta mai. Mancano tante cose. Si decanta tanto l’olio toscano ma ancora non si è riusciti a fare un marchio vero.

Per legge i vigneti dovrebbero produrre 90 quintali di vino a ettaro; ci sono vigneti dove non esistono quasi più viti, la loro produzione è di 5 quintali; i restanti 85 vengono acquistati altrove: non è più vino di quel vigneto, di quella zona, altro che doc o docg: «In questo modo, visto che siamo in tema, ci tiriamo la zappa sui piedi». Tanti produttori mancano di serietà; ci dovremmo concentrare sulla qualità, «alla Cosimo Ridolfi», e invece si fa molto all’italiana, furbescamente. In Francia questo non avviene e i viticoltori d’Oltralpe producono eccellenti vini che riescono a vendere a un prezzo remunerativo.

Il Chianti (secondo Ghelli un ottimo vino da pasto, ma è difficile farlo competere con i vini di alta Italia) dovrebbe avere una gradazione di 12,5° e il suo invecchiamento massimo dovrebbe essere di tre anni, oltrepassati i quali si sciupa; tali caratteristiche sono state un po’ falsate: tanti nostri viticoltori vogliono fare concorrenza ai colleghi francesi. Non si vede la ragione per cui, solo per seguire una sorta di moda, si debba togliere vigneti che facevano Chianti per produrre vini che non sono della nostra tradizione e che invece in Francia realizzano da decine di anni: il risultato è che il vino prodotto in Toscana non è più vino toscano.

Architetto e cacciatorecon il «pallino»del museo dell’aratroArchitetto, cacciatore accanito e discendente di un grande scienziato, Fabrizio Ghelli sembra riassumere in sé il genius loci della nostra regione. «I miei antenati hanno sicuramente influito sulle mie scelte e sulle mie passioni». Vivere in mezzo alle cose belle ha sviluppato in Ghelli l’amore per l’architettura. Laureato nel 1974, per molto tempo ha lavorato nel settore del restauro, soprattutto in Friuli collaborando con i Beni ambientali. Ma ormai da tanto è l’agricoltura quella che gli porta via più tempo: «oggi non si può pensare ad avere fattori, sottofattori: faccio tutto io», anche se, non essendo agronomo, si lascia consigliare da professionisti. C’è in programma di fare un museo con l’archivio di Cosimo Ridolfi, custodito al Meleto in una sala dall’apparente e suggestivo disordine. Per quanto riguarda la caccia da sempre tutti gli inverni veniva al Meleto; i numerosi trofei appesi alle pareti suggestionavano il giovanissimo Ghelli che, imbracciato il fucile, si struggeva in spasmodiche attese nei boschi circostanti la villa: «Era una caccia d’élite che si faceva molto volentieri». Gli ricordo che Puccini preferiva nell’ordine la caccia, le donne e, poi, la musica. Anche Ghelli mette al primo posto la caccia: «Ce l’ho nel sangue, è sempre stata una parte di me molto importante». Da giovane esercitava qualsiasi tipo di pratica venatoria, ora si è specializzato e fa caccia di selezione a caprioli, daini e cinghiali: mancando i predatori naturali, bisogna che l’uomo si sostituisca a essi e attui una selezione per evitare il proliferare degli erbivori che danneggerebbero sottobosco e bosco. «È l’unico tipo caccia che abbia ancora un po’ di valore etico, il resto è solo sparacchiare a tutto quel che si muove».