FABRIZIO GHELLI: L’agricoltura come cultura
Dopo una ventina di minuti arriva Ghelli, scusandosi ancora. Ci sediamo su una panchina in pietra serena sotto un leccio secolare e iniziamo la chiacchierata.
Parlare del grande avo è inevitabile. Qual è l’eredità spirituale che le ha trasmesso? È sicuramente costituita da un grande amore per la scienza, per la natura e dalla volontà di lasciare qualcosa a chi viene dopo. Mi racconta di essere stato da poco a Bibbiani, una villa che Ridolfi aveva acquisito dai Frescobaldi. Vi aveva creato un giardino meraviglioso, sistemandovi, fra l’altro, delle sequoie che ora hanno 150 anni. Piantare una sequoia nella campagna toscana mah, oggi può sembrare strano ma lui lo faceva per sperimentare e perché pensava al dopo.
«Anche io cerco di fare qualcosa che rimanga: la società di oggi, quella dei consumi frettolosi e superficiali, non è la mia. Io non potrò dare un’eredità come quella di Cosimo Ridolfi, ma se mi riesce mantenere e lasciare l’azienda così com’è, sono contento».
Su una superficie di 9 ettari è stato concluso un restauro dell’antica «sistemazione a spina»; questa è una tecnica inventata da Testaferrata, uno scienziato che lavorava con e per Ridolfi: serve a diminuire le pendenze del terreno, riempiendo con un processo naturale i calanchi privi di terra, evitando e compensando l’erosione e il dilavamento del terreno. Riassumendo, e sperando di essere stato chiaro, serviva per portare terra e umidità dove mancavano. Questo lavoro, spiega Ghelli, «l’abbiamo realizzato per i posteri e sono venute diverse scuole a vedere. Sono molto contento di averlo fatto, anche se dal punto di vista economico è tutta una rimessa».
Ridolfi, ripetiamolo, ha praticamente «concepito» l’agricoltura toscana moderna (anche se ora, ovviamente, è molto cambiata): ha progettato l’aratro «voltaorecchie», quello che, opportunamente perfezionato, è impiegato ancora oggi. E ci sarebbe l’idea, con il comune e la provincia, di istituire il «museo dell’aratro»: vedremo Ridolfi ha importato la prima vite americana, che non viene attaccata dalla peronospera oggi trattata con ramati e altre medicazioni; la vite americana è quella che fa il Fragolino; basta una ciocca di quest’uva a dare al vino un deciso sapore di fragola: per questo in Toscana è proibita, mentre in Friuli ci fanno un vino.
Ridolfi era anche docente di agronomia. Per poter mostrare agli studenti in qualsiasi stagione i vari tipi di frutta, si fece creare da Calamai, un famoso modellista, tanti esemplari in cera di vari generi di frutta. Quello che oggi è interessante, al di là della raffinata bellezza dei modelli, è che molte delle specie rappresentate, sono completamente sparite: così, con questi modelli in cera sarà organizzata una mostra, forse nel 2007.
Ma qual è la condizione dell’agricoltura toscana secondo il nostro architetto-agronomo? Un po’ di sano e realistico pessimismo non guasta mai. Mancano tante cose. Si decanta tanto l’olio toscano ma ancora non si è riusciti a fare un marchio vero.
Per legge i vigneti dovrebbero produrre 90 quintali di vino a ettaro; ci sono vigneti dove non esistono quasi più viti, la loro produzione è di 5 quintali; i restanti 85 vengono acquistati altrove: non è più vino di quel vigneto, di quella zona, altro che doc o docg: «In questo modo, visto che siamo in tema, ci tiriamo la zappa sui piedi». Tanti produttori mancano di serietà; ci dovremmo concentrare sulla qualità, «alla Cosimo Ridolfi», e invece si fa molto all’italiana, furbescamente. In Francia questo non avviene e i viticoltori d’Oltralpe producono eccellenti vini che riescono a vendere a un prezzo remunerativo.
Il Chianti (secondo Ghelli un ottimo vino da pasto, ma è difficile farlo competere con i vini di alta Italia) dovrebbe avere una gradazione di 12,5° e il suo invecchiamento massimo dovrebbe essere di tre anni, oltrepassati i quali si sciupa; tali caratteristiche sono state un po’ falsate: tanti nostri viticoltori vogliono fare concorrenza ai colleghi francesi. Non si vede la ragione per cui, solo per seguire una sorta di moda, si debba togliere vigneti che facevano Chianti per produrre vini che non sono della nostra tradizione e che invece in Francia realizzano da decine di anni: il risultato è che il vino prodotto in Toscana non è più vino toscano.