DON ANTONIO NARDI: «E non chiamatemi prete artista»
Ecco perché don Nardi preferisce essere descritto come «un prete che sogna anche a 81 anni», dice di sé. E, infatti, sogna nuove opere d’arte che lascino il segno come le decine di chiese che ha arredato in tutta Italia, le vetrate gigantesche collocate in molte cappelle o il monumento dedicato al «Vangelo di Giovanni Paolo II» che sta ultimando. E sogna anche di poter continuare a dare una speranza agli ospiti della sua comunità: una comunità che lui ha chiamato «Betania» perché, spiega, «Betania era la casa dei poveri, era la patria di Lazzaro e lì Cristo andava spesso».
Diventò prete il 26 giugno del 1946 quando l’Italia aveva scelto da pochi giorni di essere una Repubblica.
«Tornai da sacerdote nel mio paese d’origine, a Bitonto. Ero un semplice cappellano ma molto vicino alla gente». E in particolare ai ragazzi di strada. «Hanno detto che sono stato il prete degli sciuscià. E forse è vero: dormivo con loro, stavo insieme a loro, li portavo a Messa, li facevo confessare». Finché non scelse di voltare pagina. «Partii per Perugia sopra un camion con mia madre, cinque ragazzi e una capra. Sembrava di stare sull’arca di Noè». Nel cuore verde della penisola don Nardi si concentrò sull’arte sacra. «Un’arte spiega oggi che non è devozionale ma di culto». E tre sono i suoi pilastri creativi. «Prima di tutto è necessario che l’opera abbia un tema. Questo significa che deve essere capace di parlare anche fuori del momento liturgico e non può che trarre ispirazione dalla Sacra Scrittura». Secondo: la verginità della materia. «Occorre che sia chiara la sostanza. Non come accadeva nel Barocco o nel Rococò dove contava soltanto ciò che si vedeva». Terzo: la destinazione. «L’arte sacra deve avere come scopo il culto. E quindi deve essere anche unica e non figlia di un catalogo di commercio».
A Perugia don Nardi cominciò a frequentare i corridoi dell’Accademia di Belle Arti. «Con un’autorizzazione particolare perché ai preti era proibito andare in istituti pubblici». E trasformò in realtà un suo chiodo fisso: creare l’atelier del sacro. Lo chiamò «Centro diffusione di arte liturgica». «E ricevetti le congratulazioni del Vaticano», dice. Gli anni perugini furono quelli in cui la sua «bottega» sfornava calzari per i vescovi, crocifissi e paramenti sacri. Una fucina di idee che a metà degli anni Sessanta si trasferì a Firenze. «Diventai cappellano a Santo Stefano in Pane e lì ho progettato l’arredamento completo della chiesa di Correzzo, nel veronese, che aveva come comune denominatore il Battista». Quando nel ’66 Firenze finì sott’acqua, don Nardi era ancora in città. «E ricordo che stavo realizzando un tabernacolo con dieci chili di argento per Ragusa». La sua parrocchia aprì le porte agli «angeli del fango». E l’accoglienza di quei giovani gli segnò la vita. Perché una ragazza rimase incinta. «Fu quasi ripudiata dalla famiglia confida don Nardi e di fatto l’adottai». Fu la prima. Dopo un paio d’anni il tribunale di Firenze gli affidò un tossicodipendente. Ma don Nardi aveva già traslocato: era approdato a Barberino del Mugello. «Così nacque la comunità di recupero che è sopravvissuta per trent’anni. E senza avere un soldo dallo Stato», spiega il sacerdote. «Per finanziarci avevamo messo su di tutto: da una fabbrica di ceramica alla tipografia che stampava anche per la Sip, l’Enel e la diocesi di Firenze». Dalla sua comunità sono passati migliaia di ragazzi. «Dovevano restare per almeno cinque anni spiega don Nardi e la giornata era scandita dal lavoro». Anche a Barberino il suo estro creativo non si fermò. Anzi, giunse fino a Gioia del Colle dove progettò gli interni della parrocchia di San Vito. «In una cittadina molto conservatrice il mio progetto fu un pugno allo stomaco, ma doveva servire per rompere con le tradizioni ormai vuote».
Lui, invece, ruppe col «business del recupero dei tossicodipendenti», scrisse all’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro. Era il ’89 e decise di rifugiarsi in Casentino, nel polmone verde della provincia di Arezzo. Sempre con chi veniva dimenticato dalla società. «Anche se stavolta si trattava di persone con un certificato clinico di disintossicazione e di immigrati». E a Talla si è fermato. Accompagnato dalla sua passione per l’arte e dai suoi «ospiti» che oggi sono una ventina. «Avrò anche avuto una vita complicata dice don Nardi mentre sfoglia le riproduzioni delle sue opere ma a cuore aperto posso dire che rifarei davvero tutto».
Ma il monumento a Wojtyla non è il primo che realizza don Nardi. Un altro suo lavoro si trova nella chiesa del Divino Amore a Roma ed è il tributo a «Cristo creatore del tempo e nello spazio» che venne donato in occasione del Giubileo del 2000. L’opera è una miscellanea di bronzo e vetro così come lo sarà il monumento dedicato a Giovanni Paolo II. Nel lavoro in ricordo del Santo Padre il bronzo servirà per forgiare il Vangelo aperto e il vetro per rappresentare il Papa. «Ho scoperto il vetro realizzando decine di vetrate per le chiese spiega don Nardi . E il vetro ha alcune caratteristiche peculiari: i suoi contrasti richiamano alla divinità, la sua trasparenza alla purezza, la sua proprietà di dividersi alla rettitudine». Per creare la statua, don Nardi sta completando un modello in polistirolo su cui verrà applicata una fibra di ceramica che permetterà al vetro di essere fuso a 900 gradi.
È già certo che il monumento verrà collocato a Bari. «Ma non sappiamo ancora se troverà posto nella spianata di Marisabella oppure nel nuovo aeroporto della città in modo che sia da stimolo per dedicare lo scalo a Giovanni Paolo II», precisa don Nardi. E l’associazione di volontariato «Comunità di Betania» ha dato il via ad una gara di solidarietà per finanziare la realizzazione dell’opera.