DODI BORTOLOTTI: L’artista delle terrecotte leggere, ironiche e «vive»

di Sara D’Oriano

Le sue mani, nonostante l’età, sono ancora forti e abili. Lo si capisce da come, raccontandomi di sé, gesticola e gioca con la rivista che afferra, uno dei cataloghi del museo che contiene le sue opere. Donatella Bortolotti, in arte Dodi, non è toscana di nascita ma il suo amore verso la nostra terra è talmente viscerale che ha deciso, più di quaranta anni fa, di venirci ad abitare con suo marito Gianni.

Seconda di quattro figlie, quasi tutte artiste anche se in ambiti diversi («L’ultima, non avendo delle grandi doti artistiche si è dedicata a fare sei figli»), Dodi è figlia d’arte dello scultore Timo Bortolotti: «Delle mie sorelle, ero l’unica a cui piaceva passare il tempo nel laboratorio di mio padre. Le mie sorelle erano attratte da altre forme d’arte: la grande è una pittrice, la seconda scrittrice. Ricordo addirittura di una volta che per dispetto una di loro danneggiò una delle sue opere in un momento in cui lui non era presente. Una volta anche io, da bambina, per imitarlo, afferrai lo scalpello e tutto ciò che riuscii a fare fu danneggiare la sua ultima scultura. Non la prese bene».

Fin da subito catturata dall’arte paterna, Dodi si prestava spesso come modella per le sculture del padre: «Avevo circa sei o sette anni. Un giorno d’estate, mentre dormivo, lui mi scostò il lenzuolo con il quale mi ero coperta e realizzò una figura di bambina dormiente che mi ritraeva». Da lì, seguendo le orme paterne («nonostante lui non mi facesse lavorare, potevo solo osservare cosa realizzava»), Dodi ha fatto della scultura la sua espressione e la sua vocazione.

Ad attirarla inizialmente, il disegno: «Contrariamente alle mio sorelle, mio padre insistette perché io prendessi la doppia maturità, per questo oltre a quella scientifica presi anche quella artistica. Sono sempre stata brava a disegnare, soprattutto i ritratti, che amo in maniera particolare». Ed effettivamente di quadri, mentre mi parla, intorno a lei ce ne sono molti. Fogli bianchi riempiti con abilità. Che fosse un ritratto, un paesaggio, delle persone intente al lavoro, che fosse un bozzetto o una rappresentazione meticolosa, ogni cosa dei suoi disegni aderisce al vero, con profondo realismo, una caratteristica che distinguerà sempre il suo modo di vivere l’arte.

«Mio padre frequentava molti artisti, spesso mi portava a vedere delle mostre e delle esposizioni. È stato così che sono entrata in contatto con la Galleria La Colonna di Milano, una delle gallerie di primissimo piano nel panorama culturale del capoluogo lombardo degli anni 50. Ci ho lavorato per due anni. Poco tempo a pensarci ora eppure così importanti per me e la mia formazione». Unica donna scultrice in un gruppo di pittori, tra cui Renato Guttuso («un gran vanitoso»), Dodi trae ispirazione per la sua arte da uno scultore che realizzava, all’interno della galleria, dei vasi di terracotta, che servivano come modelli per i pittori. Osservandolo al lavoro, Dodi pensò di poter applicare lo stesso principio per realizzare delle figure a forma di vaso. Inizia così la sua passione per la creta e la terracotta.

«Mio padre mi ha lasciato un grande insegnamento, e cioè di realizzare sempre opere vuote. Se si realizzano opere in creta piene il rischio che si formino delle bolle d’aria all’interno è maggiore. Il che significa che in fase di cottura il vaso si rompe».La tecnica che rende le opere di Dodi così particolari è in realtà un’arte antica, primitiva, detta colombino «Si realizzano delle lunghe strisce di terracotta, proprio come quando si fanno gli gnocchi. Il loro spessore dipende da ciò che si vuole realizzare. Queste strisce vengono sovrapposte le une alle altre, creando i volumi che si modellano poi con le mani». È per questo che le sue creazioni, vuote e stondeggiate a piacere, hanno il dono di una leggerezza inconsueta e sorprendente. Quasi incredibile.

Tanto quanto suo padre era dotato di un profondo senso dell’espressività che caratterizza i suoi ritratti e le sue figure, così le opere di Dodi riflettono una grande ironia. Gatti, galli, volti, madri, autoritratti, bambini. Tutti i soggetti di Dodi sono ritratti con straordinario realismo e calore domestico, e lei ne parla come se fossero davvero opere vive, persone colte nell’atto di un sorriso fugace, in un momento di collera o sorpresa, in un momento di quiete e riposo. Variopinte, poetiche, popolari, le sue rappresentazioni del mondo sono genuine e fresche e raccontano storie sempre attuali e estremamente dolci. «Non c’è un’opera alla quale sono più legata rispetto alle altre. Ogni opera ha per me un profondo significato. Se devo scegliere, l’ultima che ho fatto in quel momento è quella a cui tengo di più!».

Lontano dai clamori della critica e dalle esposizioni, oggi Dodi è ancora attiva, nonostante gli acciacchi dell’età e gli impegni, e si concentra soprattutto sulle acqueforti, un altro aspetto poco conosciuto della sua arte. Insieme a Gianni, Dodi continua a vivere nella sua Toscana, terra che non ha praticamente mai abbandonato. E proprio per ringraziarla di questa sua dedizione e amore per la nostra terra, il comune di Montevarchi ha recentemente dedicato a lei e a suo padre alcune sale del nuovo museo del Cassero, esponendo una parte importante delle loro opere. Uno vicino all’altra, proprio come vicini sono questo padre e questa figlia, uniti da un profondo e comune amore per l’arte e la bellezza.

Montevarchi, nell’antico cassero oltre 500 sculture

Nato con una attiva funzione militare, divenendo anche sede della Caserma dei Carabinieri di Montevarchi, oggi l’antico Cassero della città del Valdarno Superiore, dal centro storico a forma di mandorla, dopo un puntiglioso restauro è divenuto un museo e un centro di documentazione permanente per monitorare l’attività artistica, in particolare scultorea, del periodo storico compreso tra ottocento e novecento.

Il progetto, che prende il nome di «Cassero per la scultura» è uno dei pochi in Italia e si propone non solo di «conservare il patrimonio culturale esistente ma di produrre innovazione anche nella gestione mettendo in rete le eccellenze del territorio e quindi costituendo una grande opportunità per il turismo e lo sviluppo economico», scrive il sindaco Giorgio Valentini. A popolare il nuovo museo del Cassero, una collezione permanente, restaurata ed esposta, di circa oltre mezzo migliaio di opere create tra ottocento e novecento tra bronzi, legni, gessi, terrecotte e ceramiche e marmi, di artisti toscani e italiani, giunte a Montevarchi grazie a donazioni di privati.

I visitatori potranno così muoversi all’interno di spazi garbatamente restaurati, utilizzando le più moderne tecniche espositive e visitare le opere di artisti come Michelangelo Monti, Timo Bortolotti, Arturo Stagliano, Alberto Giacomasso, Mentore Maltoni, Valore Gemignani, Firenze Poggi e Donatella (Dodi) Bortolotti. Insieme ad essi, le rappresentazioni di artisti montevarchini come Pietro Guerri, Elio Galassi e Ernesto Galeffi, tutte divenute patrimonio del comune valdarnese.

Inoltre, nei locali accessibili agli esperti, si potranno visionare documenti originali, fotografie d’epoca e rassegne stampa, oltre che cataloghi d’arte. Oltre a questo, gli spazi del museo accoglieranno esposizioni temporanee e molti eventi, come degustazioni, visite guidate e occasioni particolari che faciliteranno le famiglie nell’accostarsi al mondo della scultura.

Ed è proprio in questo luogo che è visibile, per la prima volta in veste permanente, l’opera di Dodi Bortolotti e di suo padre Timo, un omaggio importante che dimostra a tutti gli effetti il profondo legame che lega l’artista milanese alla terra toscana.

Biglietto intero: 3 euro. Informazioni e prenotazioni: 055-9108272; www.ilcasseroperlascultura.it