CELINA SEGHI: La signora dello sci toscana
di Elena Giannarelli
Forse sarà merito anche di quel nome insolito, per il quale lei stessa racconta di essere venuta al mondo, ma nella storia di Celina Seghi nulla è banale. Alla mamma piaceva Celina; quando però alla coppia dei prolifici signori Seghi nacque ancora una bambina, le dettero il nome della nonna, Maria. Così fu necessario mettere in cantiere un’altra cicogna, la nona della serie, e il 6 marzo 1920 quel desiderio potè essere realizzato. Allora il Comune all’Abetone non c’era e per registrare la neonata all’anagrafe il padre fu costretto a scendere e poi risalire a Cutigliano. Quando il paese sul passo divenne sede comunale, fu fatta la trascrizione, ma un errore le attribuì una data di nascita diversa: 8 marzo. Per uno scherzo del destino, il «secondo» compleanno della pioniera dello sci alpino italiano andò a coincidere con la festa della donna.
In quella grande nidiata, nove fra maschi e femmine, lei era l’ultima, la più coccolata. In famiglia troverà anche l’allenatore per i suoi futuri successi: sarà il fratello Gino a guidarla in una carriera che non è errato definire leggendaria. Celina ovviamente ci ha messo del suo: una volontà di ferro, una reattività incredibile, una grinta straordinaria, gambe fortissime e un talento davvero non comune. La chiamavano «Topolino», oppure «diavoletto rosso» ed è l’unica signora nel mitico gruppo dei «quattro moschettieri dell’Abetone», quelli che portarono lo sci toscano ai vertici dello sport bianco. Con lei erano il grandissimo Zeno Colò, il caposcuola Vittorio Chierroni, di qualche anno più anziano; poi verrà il più giovane Paride Milianti, ossia la perfezione sugli sci.
La ragazzina Celina cominciò a vincere a dieci anni. La sua carriera agonistica, purtroppo interrotta dalla guerra, andò avanti fino al 1956 alla vigilia delle Olimpiadi di Cortina, a cui non partecipò. Chiuse ugualmente con un palmares straordinario e per molti versi ineguagliato.
In campo italiano le sue avversarie furono grandi atlete, da Paola Wiesinger a Giuliana Chenal Minuzzo. In campo internazionale, Celina riuscì a battere la mitica Christl Cranz di ben quattro secondi nello slalom ai Mondiali di Cortina del 1941. Conquistò l’oro in speciale e l’argento in combinata in quella sfortunata edizione, purtroppo non omologata per la guerra. Ai Mondiali nel 1950 ad Aspen fu bronzo in speciale.
Brillò soprattutto ai grandi concorsi. Nel 1948 si aggiudicò quello di Grindenwald. Alle gare del Kandahar nel 1949 a Sankt Anton si fratturò una spalla in discesa, ma arrivò al traguardo. I medici le immobilizzarono l’arto. Si doveva ancora disputare lo slalom. Chiunque altro avrebbe rinunciato, ma non Celina. Decise di presentarsi alla partenza. Nella seconda manche il cronometro non funzionò: fu costretta a ripetere la prova. Fra l’ammirazione generale vinse il «K» d’oro, che premiava la migliore combinatista. Nel 1950 vinse la libera e la combinata del Kandahar. Due anni dopo, al Sestriere, si aggiudicò per la terza volta le due difficili prove di quel concorso ed è l’unica italiana ad aver così coronato il sogno di ogni atleta di quei tempi: conquistò il «K» di diamanti, il suo trofeo più prestigioso, quello di cui ancora oggi è giustamente fiera per il modo davvero incredibile in cui fu ottenuto.
È la protagonista di uno sci eroico, quando le trasferte avevano il carattere di un’avventura. Andare dall’Abetone a Cortina, in Austria a Sankt Anton, o al Sestriere, fra la fine degli anni Trenta e gli anni Cinquanta, voleva dire pullman e treno, senza cuccette, o vagoni letto: a volte gli atleti dormivano in terra negli scompartimenti. A muoverli era la passione per uno sport fantastico, fatto di grinta, coraggio, tecnica, duttilità, capacità di adattarsi a tutti i terreni. Quelli dell’Abetone da questo punto di vista avevano una marcia in più: erano abituati a sciare su nevi più difficili di quelle delle Alpi, su piste più strette, in condizioni climatiche spesso imprevedibili per la vicinanza del mare.
Finita la stagione del grande sci, l’esistenza di Celina, che si sposò nel 1970 con un chirurgo ed andò a vivere a Pistoia, si è svolta all’insegna di quella curiosità che è sempre stata la sua caratteristica: «Se mi capita qualcosa di nuovo da sperimentare, valuto al momento»; «Sono felice di fare nuove esperienze». «Bisogna sempre tenere attivo il cervello e soprattutto essere curiosi di tutto e interessarsi a mille cose». Sono frasi sue.
Così nell’agosto 2001 fece il giro del mondo la notizia del suo volo in parapendio biposto sull’Abetone; una esperienza che le piacque moltissimo, per la possibilità che questo insolito mezzo le dette di vedere dall’alto il suo paese, le sue montagne, le sue piste. Lei, che in aereo ha paura, si sentì tranquillissima per aria. «Devo dire che ero molto più emozionata quando dovevo gareggiare», dichiarò dopo l’atterraggio ai giornalisti che le chiedevano le sue impressioni.
E a novanta anni Celina, dal 6 all’8 marzo 2010, ha festeggiato il suo compleanno per tre giorni di seguito: il 24 è intervenuta al «Pinocchio sugli sci», invitata come apripista. Si diverte spesso a spiazzare i giornalisti che vanno a intervistarla e si aspettano di incontrare una fragile signora seduta davanti al fuoco del caminetto, sorseggiando un thè. Fedele al suo carattere, se fuori c’è un bel sole, chi vuole dialogare con lei la segua: dove? Ma al Gomito, sulle Zeno, sulla Chierroni. O sulla Seghi stessa, la pista che le è stata intitolata. In seggiovia si parla meglio: segue con il suo sguardo acuto i giovani, denuncia la sua preoccupazione per il futuro dello sci, per la crisi che ha investito anche il suo paese che adora, ma di cui vede con lucidità i difetti, come la cronica mancanza di parcheggi o i problemi di viabilità.
E allora, cari appassionati toscani, se vi capiterà di incontrarla sulle piste dell’Abetone, cercate di prendere le code dei suoi sci e seguite la «dama dai pantaloni viola»: la discesa sarà memorabile, perché vedrete una sciatrice leggera e precisa, che si diverte ed è senza peso e senza età. Lei, come tutti quelli che hanno imparato con attrezzi di legno lunghissimi e pesanti, attacchi Kandahar e abbigliamento nemmeno paragonabile alle tute leggerissime di adesso, ha un rapporto speciale con la neve: non scia, ma sci-vola. Aggiungete a tutto questo la classe e l’eleganza innata: non si è la grande Seghi per niente.
Con Zeno Colò tra i «grandi dell’Abetone»
Celina Seghi a quattordici anni fu terza in slalom agli assoluti del Sestriere; a diciassette divenne campionessa italiana juniores. Ha vinto ventiquattro titoli italiani assoluti in discipline diverse: sei in discesa libera, dieci in slalom, uno in gigante e sette in combinata. Non sono uno scherzo: tanto per dare un’idea, fra le vincitrici di sempre, dietro di lei si collocano la grande Paola Wiesinger con quindici successi (cinque in discesa, quattro in slalom, sei in combinata) e Claudia Giordani, con quattordici (uno in discesa, due in combinata, sei in gigante, cinque in slalom). Le dieci vittorie in slalom rappresentano ancora oggi un record: sono il doppio di quelle dalla già citata Giordani negli anni Settanta mentre Deborah Compagnoni ne ha soltanto una nella sua prestigiosissima bacheca dei trionfi. Le partecipazioni alle Olimpiadi sono state onorevoli: a Sankt Moritz nel 1948 fu quarta in discesa e in combinata ed ancora quarta in slalom ad Oslo nel 1952. Si devono inoltre citare i trionfi del 1950 nella Coppa Foemina, allorché raggiunse il gradino più alto del podio in slalom e combinata.
La pattuglia dei «grandi dell’Abetone» è capitanata dallo straordinario Zeno Colò, a proposito del cui nome di battesimo si racconta un divertente aneddoto. Agli inizi del Novecento la località appenninica era già un luogo di villeggiatura estiva molto ricercato. Vi avevano aperto ville nobili personaggi e non era raro incontrarvi gli Agnelli, scrittori illustri, studiosi di chiara fama. A partire dall’agosto 1911 la contessa Zoubow aveva invitato Giovanni Amendola con la famiglia: l’uomo politico e scrittore lavorava allora alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, con uno stipendio non certo altissimo. L’invito fu perciò accettato con gratitudine e la moglie di Amendola, Eva Kuhn, per sdebitarsi, dava lezioni private a un nipote della padrona di casa. Nella villa andò a lavorare Teresa Colò, una sposina del paese, moglie di un artigiano del legno che faceva anche il boscaiolo. Non aveva ancora bambini; gentile e timida, era una presenza discreta e gradevole. Un giorno Eva Amendola le domandò se avesse già pensato al nome per un suo figlio. La signora Colò dette una risposta sorprendente: «Zeno». Poi spiegò che quel nome strano lo aveva scoperto un suo zio in un romanzo; a lei era piaciuto, anche se già era stata presa in giro da quelli a cui aveva confidato questo suo desiderio. La villeggiante rimase colpita. «Zeno», ripetè. «È un bel nome. Zeno Colò. Suona bene. Potrebbe essere l’angelo delle nevi!». Così ha raccontato in un suo libro Marcello Vannucchi. La profezia si avverò: nel giugno 1920 nacque Zeno Colò. E ancora oggi, quando si parla di lui, lo si definisce «il falco di Oslo», per una delle sue più fantastiche picchiate, o «l’angelo delle nevi».