BRUNO MURZI, il mago dei piccoli cuori
di Simone Pitossi
Ci sono uomini che intervengono su corpicini che chiunque di noi avrebbe pausa solo a toccare. Ci sono uomini che operano su cuori grandi come nocciole. Ci sono uomini che, spesso, salvano bambini da un destino segnato. Bruno Murzi, primario di cardiochirurgia pedriatrica dell’«Ospedale del Cuore» di Massa, è uno di questi. L’ospedale si trova a Montignoso, alle porte del capoluogo massese, sotto le Apuane. Pochi, forse, in Toscana conoscono questa incredibile risorsa. Ma Murzi e la sua «task force» ottengono successi tali da essere considerati i migliori specialisti del continente. Questa storia inizia dai sogni di un bambino nati sulle pagine di un romanzo. «Volevo fare il medico fino da piccolo ci racconta Murzi nel suo studio al secondo piano dell’ospedale . Leggevo i libri di Cronin e mi appassionavo a quelle storie. Ma sognavo di fare il medico di paese: quei dottori che andavano nelle case con il calesse. Poi mi sono iscritto all’università e ho sempre ritenuto che i chirurghi erano persone prive di cultura che tagliavano e cucivano a differenza dei medici internisti che erano quelli che ragionavano sulle terapie e le malattie».
E poi qualcosa è cambiato. Il dottor Murzi dice di essere arrivato fin qua «grazie ai buoni maestri». In particolare uno. «Il dottor Sergio Eufrate sottolinea faceva questo mestiere e mi ha aperto gli occhi. Era una persona eccezionale, capace, colta: nelle sue conversazioni spaziava dalle ceramiche ming al viaggio sulla luna passando per la cucina. E soprattutto era un buon chirurgo. Noi, in pratica, lavoriamo su un sistema idraulico. Ma non basta tagliare e incollare perché poi il sangue, lì dentro, ci deve passare. Il dottor Eufrate mi ha fatto capire che per fare questo mestiere, il cardiochirurgo pediatra, non basta essere dotati di buone mani ma bisogna avere tanta conoscenza e immaginazione. È così che mi sono innamorato di questo mestiere».
Operare il cuore di un bambino non è come lavorare su quello di un adulto. Le differenze sono molte. «Innanzitutto spiega le dimensioni. Noi lavoriamo su cose estremamente piccole: il cuore di un bambino di 2 chili e mezzo è più piccolo di una noce, e dobbiamo pensare che è diviso in quattro parti. L’altra differenza è che non abbiamo mai un intervento standardizzato. Ci sono una molteplicità di cardiopatie, una molteplicità di risposte, una molteplicità di interventi all’interno dei quali il cardiochirurgo pediatra ha la possibilità, ogni volta, di inventare qualcosa di nuovo: fare un movimento, un gesto, mettere un punto che cambia tutto. Questa, forse, è la parte più affascinante». E così si torna all’importanza dell’immaginazione. «Sì, in particolare l’immaginazione tridimensionale. Non solo. Quando finisco un lavoro e mi sembra bello, di solito funziona anche bene. Sembra strano ma l’estetica del lavoro è funzionale al risultato».
Nelle mani di Murzi, quasi sempre, c’è la vita di un bambino. Anche il giorno che ci ha ricevuto. Ha ancora indosso il camice verde della sala operatoria. «Quando entro in sala operatoria dice dopo aver pensato un po’ il paziente è coperto. Io vedo solo la parte relativa al mio lavoro. In pratica, in quel momento, opero un organo che non funziona, non un bambino. E non penso alle possibili conseguenze negative. Al bambino ci ho pensato molto in precedenza: spesso, il giorno prima dell’intervento, mi capita di svegliarmi la notte e sento un po’ di apprensione. E poi ci penso tanto dopo: una volta che le cose sono state fatte mi prende l’ansia di vedere il risultato, perché è un bambino e vorrei che avesse di fronte a sé una vita ancora lunga. Ma tutto ciò mai durante la fase centrale dell’intervento: se dovessi pensare che quello è il cuore di un bambino probabilmente non ce la farei». Quindi anche la fase di prepazione è lunga e importante. «Sì, proprio così. Innanzitutto, sottolinea il cardiochirurgo mi documento cercando di conoscere il più possibile il paziente. Penso all’intervento, qualche volta cambio anche idea. Poi, la sera prima, prendo la decisione su quello che farò e non la cambio più. La cambio solamente davanti a un motivo reale in sala operatoria».
Ma in questo «mestiere» come lo definisce spesso Murzi durante la conversazione non basta lavorare bene. È necessario anche avere doti di psicologo perché il chirurgo deve parlare con i genitori prima e dopo. E si trova a confrontarsi con una parola morte che nessuno vorrebbe affrontare. Soprattutto il babbo e la mamma quando si parla dei loro bambini. «Ho dei figli. E immagino che cosa un genitore pensi in quei momenti. Il mio comportamento è quindi quello di un genitore. Cerco di essere il più disponibile possibile. È importante dare speranze perché nella maggior parte dei casi la riuscita è positiva. Ma devo anche essere onesto: nei colloqui con i genitori la parola morte la devo usare. E devo essere sicuro che il babbo e la mamma abbiano compreso che il figlio possa anche morire». Tutto questo non è una volta ogni tanto. Non è una volta al mese. Si ripete quasi quotidianamente. «Faccio 250 interventi all’anno continua Murzi . I più difficili sono quelli sui neonati perché non c’è solo la parte chirurgica ma anche quella del follow up in terapia intensiva che è altrettanto importante. E poi ci sono gli adulti congeniti con più operazioni alle spalle che sono molto complicati».
Questo però è anche un lavoro che non si può fare da soli. È necessario avere al fianco un’equipe, ottimi collaboratori sia tra i medici sia tra gli infermieri. «Non ho mai creduto sottolinea Murzi alle prime donne. Senza un gruppo adeguato non esistono possibilità di lavorare bene. E poi ci sono dei legami stretti che si creano e che portano a lavorare meglio con alcune persone rispetto ad altre. È importante avere la massima fiducia nel cardiologo pediatra che può darti un consiglio, un’indicazione».
Murzi, come altri chirurghi della struttura, non si limita ad operare in Toscana. L’ospedale ha rapporti di collaborazione con molti paesi. «Un po’ con tutta l’area del Mediterraneo. In questo momento abbiamo collaborazioni con Yemen, Eritrea, Libia, Kosovo, Bosnia, Croazia, Serbia, Macedonia, Algeria». Alcuni casi vengono trattati a Massa. Per gli altri, le «equipe» mediche si recano direttamente sul posto. Le condizioni di lavoro non sono certo ottimali in alcuni di questi paesi. «La cardiochirurgia spiega non è un pronto soccorso: deve avere un reparto funzionante. Ma le condizioni variano da paese a paese. In alcuni casi, abbiamo operato con le bombole di ossigeno che finivano, usando cerotti per sostituire materiale di terapia intensiva». E poi c’è un altro aspetto drammatico. «La cosa peggiore sottolinea è decidere chi operare durante la nostra permanenza. Dire te sì e te no è terribile. Spesso significa emettere una sentenza. Questa però è una scelta collegiale».
Di fronte allo studio di Murzi c’è la porta della terapia intensiva pediatrica. Qui vengono ricoverati i bambini che nascono con malformazioni congenite gravi. O quelli trattati dalla sala operatoria. A fianco, c’è il corridoio che porta nel reparto di degenza pediatrica. Un luogo pieno di storie, di volti, di racconti che parlano di sofferenza. Ma, spesso, c’è anche la gioia per un pericolo passato. Per un cuore salvato. Per una storia che ricomincia.
Nel 1993 la Regione e il Ministero della Sanità affidarono la gestione dell’Opa al Cnr di Pisa, che già dal 1968 operava in Toscana nel settore della cardiologia più avanzata. Oggi all’Ospedale del Cuore che nel frattempo è entrato a far parte della Fondazione «Monasterio» i bambini operati sono circa 290 (ai quali vanno aggiunti i 30 fatti al Meyer di Firenze). Poi ci sono circa 170 casi all’anno di bambini sottoposti ad interventi di cardiologia invasiva. La metà dei bimbi operati a Massa ha meno di un anno, il 30% meno di un mese. Ne 10% dei casi la mamma viene trasferita a Massa prima del parto. Bruno Murzi, 57 anni, è il primario della cardiochirurgia infantile. È di Forte dei Marmi, ha girato il mondo e poi è tornato, fino a sostituire Vittorio Vanini.
Oggi l’Ospedale del Cuore di Massa è una vera e propria eccellenza a livello europeo. «Il rapporto di mortalità dice con una punta di orgoglio Murzi è il più basso nel nostro continente. Questo è un risultato molto qualificante». E quindi chi sta in Toscana è davvero fortunato. «Noi non siamo i migliori. Noi lavoriamo bene sottolinea il cardiochirurgo perché il rapporto tra tutte le componenti di medici e infermieri è buono e ognuno lavora al meglio. Avremmo delle qualità che potrebbero essere sfruttate adeguamente dal Sistema sanitario della Regione per farci crescere di più. Probabilmente avremmo bisogno di essere posizionati in una zona in cui le nostre qualità potrebbero essere sfruttate al meglio. Facciamo un esempio. Io e il dottor Lorenzo Mirabile del Meyer di Firenze siamo gli unici in Italia che operiamo alla trachea. Perché si chiede il dottor Murzi a nessuno viene in mente di metterci insieme?».