ARTURO PAOLI: l’amico di Dio e dei poveri

di Massimo Orlandi«Ti va un caffè?». Sono le otto di mattina e Arturo saluta così gli occhi assonnati del suo interlocutore. I suoi sono vispi e lucenti. Come ogni mattina si è alzato che era ancora notte, ha pregato Dio accogliendolo nel suo farsi alba, ha camminato a lungo nel bosco, e lo ha fatto «cantando». Spello, comunità dei piccoli fratelli di Charles de Foucauld. Una piccola cella, un letto e una pila di libri accanto, tanti amici, e questo basta perché Arturo Paoli si senta a casa e così faccia sentire chi lo incontra.«Mi piace stare al mondo» esordisce, con la sua disarmante semplicità. Ha 93 anni, Arturo, ed è bello che si possa attraversare quasi un secolo di vita e, avvicinandosi alla soglia del mistero, pensare e vivere così. «Quello che rende bella la vita – spiega – è il non portare fardelli. Non ti posso dire che la mia vita sia stata tutta buona, no, però ti posso dire che la mia vita è stata bella: anche gli aspetti negativi, anche le bischerate che ho fatto, anche le avversità sono state importanti, perché mi hanno aiutato ad avanzare, a vedere di più, a liberarmi da tante pesantezze».

La sua vita, quella che oggi ci racconta, esprime chiaramente questa convinzione: tutto concorre all’incontro con Dio, e l’incontro con Dio illumina ogni evento, anche quelli che è più duro accettare. Così, per esempio, matura la sua prima grande svolta: Arturo ha appena otto anni e per caso, in una piazza della sua Lucca, assiste a uno scontro a fuoco tra fascisti e antifascisti. Nei suoi occhi bambini restano impresse le sagome dei morti, il sangue dei feriti. «Questa immagine non mi dava pace. Eppure un episodio di per sé così cruento, così negativo, sarebbe divenuto la guida della mia vita: perché in me configurò l’idea che il mondo era in conflitto e che bisognava fare qualcosa perché gli uomini si riconciliassero. Ma la strada della conciliazione non passava certo attraverso la violenza: in Gesù trovai il modello della povertà estrema, della fragilità estrema che si contrappone alla forza».

Camminando s’apre cammino ha intitolato Arturo uno dei suoi libri più belli. Allo stesso modo il cammino della sua vita sembra aprirsi proprio quando il vento degli eventi soffia forte in senso contrario. Così il giorno della sua ordinazione sacerdotale, siamo nei primi anni quaranta, non lo salutano le campane a festa, ma ancora suoni inquietanti, quelli delle sirene che annunciano un attacco aereo. Un nuovo segno: la sua prima missione da prete sarà quella di condividere la fame, la paura, i tempi duri della guerra.«Eppure – ricorda – pur tra i tanti orrori che ho visto, quegli anni mi hanno anche trasmesso la sensibilità, la misericordia per coloro che soffrono il peso dell’ingiustizia. Ho sentito con chiarezza che l’ingiustizia è il peccato, il vero grande peccato».

Serve ancora un passaggio, il terzo, nella formazione di Arturo, e questa volta arriva per una dolorosa vicenda personale. Nel dopoguerra, dopo anni dedicati alla formazione dei giovani cattolici come vice-assistente nazionale di Ac, è costretto a pagare a duro prezzo le sue idee: viene messo ai margini, costretto a lasciare Roma. È un passaggio durissimo dal quale però, in maniera inattesa, sboccia la sua vita futura: inviato come cappellano sulle navi degli emigranti, incontra sulla rotta Genova-Buenos Aires un piccolo fratello di Charles De Foucauld. In poco tempo matura la decisione di scegliere la stessa strada: «Mi convinse il loro stare in mezzo ai poveri. Io ho sempre sentito che la Chiesa doveva stare con i poveri. In casa mia io non ho sofferto la povertà però ho capito che la scelta di Gesù è una scelta dei poveri e che bisogna essere poveri per stare dietro a lui».

Anche dietro questa fase di crisi, ecco aprirsi un orizzonte nuovo: la missione tra i poveri in Sudamerica, cui Arturo dedicherà quasi cinquant’anni della sua vita. È il segno, l’ennesimo, di come ogni fase di crisi nasconda in sé l’opportunità più grande: quella, come dice Arturo, di «raggiungere l’intimità con Dio». «Lo dice anche San Paolo, Dio ama ea qui non sunt le cose che non sono. Bisogna arrivare ad accogliere profondamente quello che è negativo, quello che tu in quel momento consideri una palla al piede, lo devi valorizzare come bisogno della grazia, come inferiorità che ha bisogno di essere aiutata. Perché in fondo la fede in Dio cos’è? È sentire il bisogno di lui, il desiderio di Lui. E allora per sentire Dio, devi sentirne profondamente il bisogno; se no ci può essere la fedeltà alla dottrina, ma non si raggiunge l’intimità con Lui. E così la sofferenza, le delusioni, le umiliazioni che ricevi a un certo punto li benedici perché sono quelli che ti hanno portato a questa intimità».

Arturo parla, ti guarda fisso negli occhi, spesso sorride. La sintesi di una vita è in questa serenità, in questa levità che nasce dall’accoglienza quotidiana di un Dio che libera, di un Dio vicino, di un Dio di cui non si deve aver paura. E Arturo non ha paura, nemmeno della morte. Anche per questo si può concludere l’incontro con la domanda che contiene tutte le altre. Cosa pensi di trovare oltre la soglia? «Vedi – risponde – oggi pomeriggio un caro amico mi accompagnerà a fare una passeggiata. Io non sto mica a chiedergli dove andremo, non sto mica a farmi spiegare cosa troverò. Così penso all’incontro con Dio. È un amico. E io mi fido di lui».

Alimentare la speranza«Ho sempre cercato il Regno di Dio che per me vuol dire realizzare una società più umana, più giusta, più fraterna». Lungo questo filo corre tutta la vita di Arturo Paoli.Nato a Lucca nel 1912, fratel Arturo ha dedicato tutta la sua vita ai poveri, agli emarginati, alle vittime di ingiustizie. Un impegno iniziato durante la guerra, quando in un ex seminario di Lucca ha nascosto e salvato da morte sicura tantissimi profughi, tra cui molti ebrei (e per questo ha ricevuto il riconoscimento di «Giusto tra le nazioni» dallo Stato di Israele) e proseguito poi nei Paesi dell’America Latina, dove è stato per quasi cinquant’anni, condividendo la vita delle favelas. Contadino tra i contadini, boscaiolo tra i boscaioli, fratel Arturo ha cercato di aiutare i poveri in un percorso di emancipazione, costituendo cooperative di lavoratori, aiutandoli a studiare e a riscattarsi umanamente per avere dignità, lavoro e speranza. Questa è anche la finalità della comunità da lui fondata in Brasile, a Foz da Iguacu, nel 1987 dove continua a recarsi.Ma oggi fratel Arturo è spesso anche in Italia, e nonostante l’età, è sempre disposto a muoversi ogni giorno di città in città, per portare il messaggio che viene dal sud del mondo. Un messaggio nel quale le distorsioni della società globalizzata, che schiaccia con le sue ferree regole economiche milioni e milioni di poveri, viene proposto dall’angolo visuale di chi soffre, di chi è oppresso.«Per cercare di riconciliare questo mondo ingiusto, violento – dice – non si può che scegliere la parte oppressa. Il mondo di oggi può cambiare solamente se si comincia a guardare dalla parte dei poveri. Non c’è altro cammino».

Autore di numerosi libri (tra i più recenti e disponibili ricordiamo «Ciò che muore, ciò che nasce»), nei suoi incontri e in tutti i suoi scritti Arturo trasferisce la passione e l’indignazione per le storture e le ingiustizie del mondo di oggi di cui si rende responsabile soprattutto l’Occidente civilizzato; ma accanto alla denuncia, c’è sempre in lui la spinta al cambiamento, alimentato dalla forza di un Dio liberante.

«Il nostro compito – ha detto di recente concludendo un incontro – è quello di alimentare continuamente la speranza. E, nonostante che il mondo, apparentemente sia più inclinato verso l’odio e la violenza, noi dobbiamo credere fortemente che l’amore vincerà. Sempre».