ANGELO MICHELE BAFARO: «Una vita su misura»

Sul manichino c’è un abito in lavorazione, con spilli e imbastiture in vista, di un bel tessuto di colore blu. Alle pareti, una carrellata di premi, diplomi, riconoscimenti. In un angolo della stanza-laboratorio resiste una vecchia macchina per cucire, perfettamente funzionante, attorniata da forbici e rocchetti di filo. È il mondo di Angelo Michele Bafaro, 79 anni, maestro sarto («top taylor» lo chiamano all’estero), consigliere della giunta esecutiva della Federazione Nazionale Sarti e Sarte d’Italia, artigiano della Cna Federmoda di Pisa, pluripremiato con le «Forbici d’oro» dall’Accademia Nazionale dei Sartori e in decine di concorsi nazionali e internazionali.

L’abito sul manichino lo sta confezionando su misura per il figlio maggiore Piero, dirigente di banca a Milano. Non riesce proprio a smettere di lavorare e a mettersi a riposo il signor Angelo, e ripensa con nostalgia alla sua sartoria che, per 60 anni, ha vestito signori e signore, con abiti classici soprattutto, da giorno, da sera, da cerimonia. Tutti rigorosamente su misura. Nella sua «Sartoria Bafaro», con una ventina di collaboratori nei tempi più fiorenti, approdavano anche clienti provenienti da tutta Italia e dall’estero, richiamati dalla fama del «maestro» Michele.

La sua storia, semplice e straordinaria insieme, è una di quelle che raccontano del lavoro inteso come passione, dedizione, sacrificio, impegno, da cui ricavare rispettabilità, sobrie soddisfazioni e riconoscimenti e, soprattutto, quanto basta per comprar casa e tirare su famiglia. Come dire, i cari valori «di una volta», da riscoprire, valorizzare, trasmettere ai giovani d’oggi. Così Angelo Michele Bafaro ha pensato di far conoscere la sua storia, intrecciando vicenda umana e professionale. Ne è nato il libro «Una vita su misura» (Felici Editore, Pisa), con sottotitolo «La storia e l’eredità di un maestro sarto artigiano per le nuove generazioni». È la preziosa testimonianza di un uomo «che si è fatto da sé», basando la propria vita sul lavoro artigiano (memoria e storia del nostro Paese e, dobbiamo sperarlo, anche del futuro). Aneddoti e insegnamenti sono offerti con una narrazione semplice ed efficace: biografia, foto d’epoca in bianco e nero, poi i capitoli più tecnici che spiegano come migliorare lo stile, poi le riproduzioni dei suoi migliori cartamodelli che gli sono valsi numerosi riconoscimenti, ed infine consigli utili per scegliere l’abito giusto in ogni occasione.

Durante la presentazione del libro alla stampa, nella sede pisana della Confederazione nazionale dell’artigianato (Cna), il maestro dell’arte sartoriale Angelo Michele Bafaro ha anche dato dimostrazione di come utilizza il suo inseparabile attrezzo del mestiere, chiamato «tri-metro», che è un particolare apparecchio per «prendere le misure» al cliente. Spiega il sarto: «Si compone di tre metri collegati tra loro e serve per misurare in 3D, ossia per rilevare contemporaneamente tre dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità. Una volta definite le misure, si fissano con il “foto-metro”, senza bisogno di trascriverle a mano come si faceva una volta. Questo sistema di misurazione consente di procedere poi a tagliare la stoffa in modo più veloce e preciso».

Aggiunge Angelo Michele Bafaro: «Il libro, frutto di una vita di studio e di lavoro, l’ho scritto per lasciare memoria e per lanciare stimoli ai giovani, con l’intento di contribuire a salvare l’arte vera dei preziosi mestieri artigianali, come è quello sartoriale, patrimonio e cuore del made in Italy». Lui è stato anche insegnante della preziosa arte (in corsi promossi dalla Provincia di Pisa) e talvolta va anche nelle scuole (gratuitamente) a spiegare ai ragazzi il suo mestiere, sperando di appassionarli. «La sartorialità – dice – pur diminuita rispetto ad alcuni decenni fa, non è certo scomparsa con l’avvento degli abiti confezionati. Il lavoro c’è sempre: ancor oggi i clienti più affezionati mi cercano (ma gli anni si fanno sentire per me, e ormai occhi e mani non sono più abili come una volta). Semmai, è la fatica del lavoro che spaventa i giovani d’oggi, forse poco avvezzi ai sacrifici: per esempio, occorrono almeno 60 ore di lavoro per realizzare un abito su misura e oltre 60 mila punti. Il guadagno? Dipende da vari fattori: per esempio, qualità della stoffa utilizzata, modello scelto, difficoltà nell’esecuzione magari per problemi fisici del cliente, cui l’abito su misura deve nascondere difetti e valorizzare la figura. Comunque, si aggira in media attorno ai 1.000-2.000 euro per un capo completo da uomo, giacca e pantaloni».

Da piccolo Angelo certo non immaginava che un giorno sarebbe diventato un maestro sarto affermato, specializzato nel settore delle divise militari. Nasce nel 1933 a San Vito dei Normanni, in provincia di Brindisi, in una famiglia di coltivatori con quattro figli e una figliola. A 12 anni entra come allievo in una sartoria, più per necessità che per convinzione. Non conosce il lavoro, non eredita una tradizione di famiglia, Ma poi si appassiona: segue le riviste di moda, le prime sfilate, il nascere delle grandi firme italiane. Studia da autodidatta, migliora con tenacia le sue conoscenze. Poi il servizio militare a Pisa, a metà degli anni Cinquanta, e nel contempo vince il primo premio di un concorso nazionale di tecnica sartoriale. Spassosa la vicenda, accadutagli all’inizio del servizio di leva, che segnerà poi la sua futura vita professionale. Racconta Angelo: «Il capitano mi chiese che cosa sapevo fare: “il sarto tagliatore”, risposi io e lui, urlando, disse di rimando: “che me ne faccio di un sarto in caserma?”, e mi spedì in magazzino a distribuire le divise per i commilitoni. Poi accadde che lo sorprese un acquazzone: la sua bella divisa da ufficiale era zuppa e strapazzata. Corsi in camerata a prendere il ferro da stiro e gliela rimisi in sesto. Da allora, ufficiali e soldati venivano da me a chiedermi di confezionare per loro anche abiti borghesi». Nel frattempo aveva terminato il servizio militare, ma non i lavori acquisiti. «Così – continua – affittai un “fondo” a Pisa per terminare i lavori, ma non finivano mai e altre ordinazioni giungevano». Sicché a Pisa rimane nella sua sartoria per 60 lunghi anni, tagliando e cucendo abiti e divise di ogni tipo (per militari, vigili, ecc.) e mettendo su famiglia con Maria Concetta. Hanno due figli, Piero, 50 anni, che vive a Milano, e Enzo, 45, laureato in chimica, lavora all’Arpat («mentre cercavo lavoro – confida Enzo – ho dato una mano a papà, ma mi sono reso conto che non sono “tagliato” per la sartoria»).

Angelo Michele Bafaro, oggi nonno della diletta nipotina Margherita, sogna una «Università dei mestieri» dove i giovani possano imparare un lavoro da amare, un’arte artigianale cui appassionarsi e ricavarne soddisfazioni ed insegnamenti di vita che, come accaduto a lui, ripagano di ogni sacrificio.

Rinascono le botteghe dei mestieriPerfino un noto mensile femminile di moda di recente ha titolato in copertina: «Mestieri cassaforte: i lavori artigianali che ci daranno da vivere», spiegando nel sommario del servizio: «L’artigianato è uno dei pochissimi settori che promettono posti di lavoro nel 2012: oggi se sai lavorare con le mani hai una chance in più. Hai mai pensato di diventare una maker?», si chiede alla lettrice che scopre così che è molto più glamour chiamare «maker» quello che fino a ieri era barista, ricamatrice, modellista o pasticcera (che oggi si autodefinisce perfino «cake designer»!). Anglicismi a parte, gli articoli sui giornali e i servizi in tv si sono moltiplicati in questo periodo di crisi economica conclamata, rilanciando un tema che, in verità, tiene banco da qualche anno: i giovani italiani snobbano i «mestieri» (lasciandoli agli immigrati), continuando ad inseguire il sogno borghese del posto fisso, che sempre più tale rimane, ossia un sogno. Reali, e s’allungano, sono invece le fila di disoccupati e precari a lungo termine, spesso con laurea «inutile» in tasca.

Già tre anni fa, e la situazione oggi non pare migliorata, secondo una ricerca della Confartigianato su dati di Unioncamere e Ministero del Lavoro, circa 23 mila posti di lavoro sono rimasti vacanti: cercati e non trovati barbieri e parrucchiere, falegnami, idraulici, meccanici riparatori, muratori, panettieri, pasticceri, pizzaioli, saldatori, sarti. I giovani preferiscono una scrivania di call center ad una piccola azienda artigiana o negozio che sia. Insomma, «imparare un mestiere» non li alletta: troppi sacrifici, troppa fatica e orari di lavoro impegnativi (fine settimana, turni anche di notte). E questo vale spesso anche per diplomati e licenziati delle medie, che aspirano ad un lavoro generico di «travet», piuttosto che ad imparare a tagliare capelli o stoffe, a saldare bulloni, a sfornare panini, pizze e torte.

Confartigianato ci riprova quest’anno, supportando l’iniziativa di Italia Lavoro (società partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Politiche Sociali) che intende favorire la trasmissione di competenze specialistiche verso le nuove generazioni, attraverso l’attivazione di percorsi sperimentali di tirocinio, chiamati «Botteghe di Mestiere» Si tratta, in pratica, di formazione on the job nei mestieri a vocazione tradizionale. Funziona così: le aziende artigiane di tutta Italia interessate ad attivare una «bottega» hanno presentato domanda attraverso le sedi locali di Confartigianato (scadenza il primo giugno, bando di Anva – Apprendistato e Mestieri a Vocazione Artigianale). Da settembre 2012 con ulteriori occasioni nel 2013, scatta la possibilità per gli aspiranti tirocinanti ad inviare il proprio curriculum indicando il mestiere di interesse. La «bottega» è sovvenzionata con 250 euro per ogni tirocinante ospitato; gli apprendisti del mestiere ammessi in bottega ricevono una borsa di tirocinio di 500 euro (lordi mensili). I tirocini sono semestrali, allungabili a 18 mesi. Al termine della formazione, prevedibilmente, i giovani makers avranno imparato un mestiere da spendere sul mercato del lavoro o per mettersi in proprio, diventando a loro volta artigiani. Forse, basta volerlo. (Per saperne di più: www.italialavoro.it – sezione Anva).