ALESSANDRO CENI TOZZI: Poeta e pittore, ma una cosa alla volta

di Francesco GiannoniPian dei Giullari, uno dei momenti della corona collinare fiorentina dove città e campagna si fondono in perfetta armonia. Qui vive Alessandro Ceni Tozzi, nato a Firenze nel 1957, poeta, pittore e traduttore dall’inglese per le maggiori case editrici italiane, una delle figure più interessanti (e una delle più schive) del panorama culturale toscano e nazionale.

Quando arrivo al cancello di casa sua, mi accoglie l’abbaiare, in verità non molto festoso, di due bellissimi pastori maremmani: Brusco (un nome un carattere) e Siena (omaggio alle origini di Ceni). Domate momentaneamente le fiere, velocemente Ceni mi fa entrare in casa.

Nell’ingresso spicca la bandiera della Torre, la contrada del nonno materno: «Ha vinto l’ultimo Palio dopo decenni di digiuno e ora starà qua per un anno intero. Sento molto il Palio».

Ci accomodiamo nello studio dalle pareti tappezzate di scaffali carichi di libri. Davanti al divano, un tavolinetto con sopra altri libri fra cui Capitani di Toscana, l’ultima fatica di Giorgio Batini, suocero di Ceni. In un piccolo spazio sulla parete le foto dei due magnifici figli: Cosimo, portierone di una squadra giovanile della Rondinella, e Allegra, deliziosa in tutù. Completa la famiglia la moglie Maria Fiore, in forza a una nota casa editrice fiorentina.Ho conosciuto Ceni parecchi anni fa proprio in casa sua. Dopo avere ricordato accadimenti e personaggi fra risate piene e qualche sospiro, cominciamo una impegnativa e interessante conversazione.

Poeta e pittore, egualmente talentoso egualmente difficile: in quale delle due arti si manifesta meglio la complessa personalità di Alessandro Ceni? Non si può dire, ci sono stati periodi in cui le due arti si sono alternate: da giovanissimo ha cominciato con la pittura, è subentrata quasi subito la poesia; quindi ha cercato che si intrecciassero, ma la cosa non ha funzionato e ha prevalso la poesia per parecchi anni. Poi per un’esigenza che continuava a premere per esprimersi anche in maniera diversa, la pittura è tornata a farsi viva.

Adesso «io vivo su due binari che sono entrambi in me ma si ignorano, anche se guardando a specchio i quadri e le poesie ti accorgi che sono frutto della medesima persona, altrimenti vivrei in una scissione allucinante». Però «faccio finta che non si conoscano, tanto è vero che nel periodo in cui scrivo non dipingo e viceversa».Dove abita il bambino abita Dio. / Il suo deambulare fa la storia; non dirglielo, / semplici parole s’impennano contro di lui / e le sue labbra mettono alcioni in bonaccia / nella selva secca della terrestre salina / che schiocca sotto il suo grave peso di bimbo(Nel regno, Nuova Compagnia Editrice, Forlì, 1993).

Quella di Ceni è una poesia non certo facile per il pubblico, si ha quasi l’impressione che scriva solo ed esclusivamente per se stesso. In realtà, mi spiega, chiunque scriva o lavori in una dimensione creativa, parte da se stesso: è inevitabile, perché la poesia in particolare è una forma di conoscenza che non si può fare che attraverso se stessi, con un viaggio interiore spesso duro e doloroso. Il suo lavoro finisce quando vede che la poesia «regge». Poi va agli altri. Poi sta al lettore entrare dentro la poesia. E a quel punto ci si accorge che la poesia non è così intima come si può immaginare: «Parte da me ma in realtà è proiettata verso l’esterno: la poesia è fatta per essere presa da altri».

Però è indubbio che la poesia si legge meno della prosa. La risposta di Ceni spiazza per la sua «brutale» semplicità: la poesia non è per tutti, checché se ne dica. La poesia è per pochi. La poesia va verso tutti, ma pochi in realtà la penetrano o se ne fanno penetrare fino in fondo. Non è un racconto non è un romanzo non è un saggio: la poesia lavora con la profondità delle parole. E il raro lettore che è preso dalla poesia lo sarà per sempre. La poesia è un binario stretto, perché le cose più serie sono anche le più difficili: un poeta non può pensare alle vendite, «il poeta scrive perché ha la necessità impellente di dire le cose come stanno».

In Italia, si legge poca poesia. Paradossalmente c’è molta più attenzione in provincia che nei grandi centri, salvo Milano, Roma e Bologna. Firenze è completamente immobile, vive di se stessa. Ha avuto un ultimo lampo negli anni ’30 con gli ermetici: allora a Firenze venivano tutti. Poi il nulla.

In altre nazioni la poesia viene letta molto di più (e i poeti vendono); in altre nazioni alle letture delle poesie si riempiono i teatri, in Italia quando si ritrovano in cinquanta è un enorme successo. Purtroppo, anche perché il livello della poesia italiana è sempre stato molto alto, e lo è tutt’oggi.

La natura come «fuoco»Le poesie e i quadri di Alessandro Ceni sono intrisi di una grande angoscia. Eppure in questo poliedrico personaggio spicca un grande amore per la vita: ama la compagnia, la buona tavola, il buon bere, la sua risata è trascinante, ama moltissimo il mare, la campagna, la natura in generale. Così i suoi quadri sono ricchi di elementi naturali: ossa, nidi, rami secchi, gechi, serpi… Questi, nel corso degli anni, sono diventati il «fuoco» del quadro, il suo nucleo: gli ultimi lavori sono una messa di fronte agli occhi degli altri dell’oggetto naturale: l’intervento di Ceni si limita al fondo, a dei semplici «segni» dietro all’oggetto che si presenta come se saltasse fuori dalla tela. È un lavoro di ricerca sulla natura che ha sempre fatto (anche in poesia) perché, «e dirò la cosa più ovvia, la natura è una cosa che ho sempre sentito profondissimamente nel mio animo». La natura in cui l’uomo spesso è un estraneo. L’uomo che fa di tutto per corrompere il mondo per adoprarlo per i suoi fini con risultati che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Ma il lavoro di Ceni non è una denuncia ecologica: c’è, invece, nel pittore il desiderio di strappare alla morte questi oggetti naturali che prima erano vivi.

Ancora l’angoscia che torna, se mai si fosse assentata: nelle creazioni di Ceni è forte questa componente che «d’altra parte è di tutto il genere umano: c’è chi fa finta o pensa di non averla, c’è chi la sfugge. Io non sfuggo niente». Se l’artista ha un compito è quello di prendere in sé tutto nel bene e nel male. Ceni sente profondamente il dolore, sente il dolore anche delle cose, degli oggetti, (in quanto presenze nella nostra esistenza) che improvvisamente si possono rompere, che possono rimandare a qualcos’altro, a un momento, a un’immagine. Sente una catena di dolore che è la nostra esistenza e che probabilmente è l’esistenza del mondo intero. Questo non significa che si debba vivere nel dolore: c’è un verso di Dylan Thomas che parlando della lacrima dice: «Una volta assaggiata, è buona». Assumere il dolore senza rifiutarlo può farti gustare il senso reale della vita, quindi anche la gioia, la risata convinta, il mangiare con gusto, il vino con gli amici, il piacere delle cose.

Chi volesse conoscere la pittura di Alessandro Ceni, può visitare da lunedì la mostra che si inaugura nei locali del Lyceum in via degli Alfani 48 a Firenze, rimanendovi per circa un mese.