ALDO BERTI: Come in uno dei suoi FILM

di Antonio Degl’Innocenti

Nel 2007, la rassegna cinematografica di Venezia viveva parallelamente un intero festival dedicato al genere western. Chissà se il buon vecchio Quentin Tarantino, padrino della rassegna, conosceva Aldo Berti. Forse non di persona, ma sicuramente non rimasero inosservati i suoi film visto che la rassegna aprì con una pellicola di questo insolito attore: El Desperado. Aldo Berti potrebbe dire poco a molti, specialmente alle nuove generazioni, ma quest’uomo, che da anni vive in Marocco, ha sicuramente qualcosa da raccontare. Nel 1968 uscì nelle sale cinematografiche di tutto il mondo uno dei colossal del genere Western firmato da Sergio Leone: C’era una volta il West.

Nel cast del film comparivano i nomi di Claudia Cardinale, Charles Bronson, Hery Fonda ed Aldo Berti. Un uomo dai mille volti, dalle grandi speranze ed interminabili sogni che ha vissuto una vita, forse due o anche tre. «Ho sempre avuto voglia di altro – racconta a Toscana Oggi – non dell’erba del vicino, dell’incognita, del buio pour azard, come dicono i francesi. Quindi una vita senza appuntamenti. Ho conosciuto in quel decennio tutti i personaggi dell’epoca che ancora oggi traboccano in televisione ma era diverso, prendere il cappuccino con Fellini per me era noioso. Aveva sempre la domanda in bocca e io odiavo le domande come le sue, e così, da buon campagnolo, lo evitavo. Un giorno mi convocò, ma conoscendolo un po’ mi sentivo a posto , un’idea ce l’avrà, pensai, ma non seppi mai quale fosse perché entrato in ufficio si mise a parlare al telefono con Rizzoli ed io, al suono della voce di Federico, m’addormentai. Mi svegliò all’una ed uscimmo, con i suoi collaboratori che ridacchiavano, per andare a pranzo. Non mi riconvocò più ed io mi son guardato bene dal chiedere che cosa avesse avuto in testa».

Rignanese di origine, Aldo, partì nel ’60 alla volta di Roma. Tre amici (Claudio Popovich, Bruno Gambone, e Jane, disegnatrice di fumetti alla Walt Disney), pochi soldi, non un posto dove abitare ma una dose incessante di entusiasmo e voglia di evadere che li portò, in breve, ad essere ospitati in una casa con Enzo Battaglia, Sasca, Romano Scavolini (registi), Pippo Franco e Emiliano Tolve (pittore). Il ’64 fu l’anno dei miracoli, arrivarono i Beatles e cambiò la coreografia del mondo. «Vivevo da due anni innamorato e felice con Barbara Steel – racconta Berti – e i giornali scrivevano che eravamo la coppia più pazza di Cinecittà, un amore durato fino al ’68». Fellini scritturò Barbara per La città delle donne, poi fece L’armata Brancaleone e tanti altri .«Nel ’68 facemmo un film insieme che segnò la fine della nostra storia e la fine della mia carriera. La lasciai senza alcuna spiegazione, non resse il colpo e tentò seriamente il suicidio». Restò una settimana al San Giacomo e quando uscì fece i bagagli e partì per l’America senza più far ritorno andando in sposa a Jim Poe, amico di Aldo e grande azionista dell’Universal. La cosa non venne gradita nell’ambiente cinematografico, «mi disturbò, ma non più di tanto – ricorda ancora Aldo – , il ’68 era come un albero carico di frutti esotici, sconosciuti e io ero eternamente affamato». Sarà sempre nei mitici anni 60, che una sera «conobbi una ragazza coi capelli rossi, simpaticissima; ballammo e bevemmo fino a tardi e poi uscimmo in strada e i paparazzi ci presero d’assalto e mentre scappavamo alla ricerca di un taxi le chiesi: “ma chi sei?”. “Sarah Churchill”, rispose. Iniziammo una storia tempestosa. Non ero innamorato di lei, ero innamorato di Winston Churchill; nelle prime foto sui giornali alcuni sbagliavano il nome Betti invece di Berti ma io ero al settimo cielo lo stesso». Aldo viveva come in un sogno, con porte spalancate ai 4 punti cardinali: Londra, Parigi, Berlino, NewYork. «Fino al ’69 tutto sembrava una grande scenografia teatrale e mentre stavo girando Sartana nella valle degli avvoltoi insieme al mio amico William Berger, abitavo con lo scultore Mario Ceroli e l’attrice fiorentina Daria Nicolodi (la madre di Asia Argento) in una villa alle porte di Roma». Anche Gabriella Ferri fu uno degli amori di Aldo, forse il più profondo e legato fino alla fine. «Gabriella si è uccisa – prosegue Berti – perché non aveva più un soldo e non aveva più una lira per colpa dell’indifferenza dei colleghi e per merito della sua enorme, incontenibile generosità». Nel ’73, l’ultimo film della serie Spirito Santo, fu l’ultima interpretazione di Aldo che lasciò Roma. «In dieci anni avevo partecipato a più di 40 film, girato una serie di telefilm per la scuola, messo in scena alcuni spettacoli e mi sentivo come non avessi fatto nulla». Iniziò qui il grande ed interminabile girovagare di Aldo, dalle grandi città di tutto il mondo ai posti più impervi. Abbandonato il cinema, il teatro, si dedicò alla scoperta di nuovi posti lasciandosi alle spalle pellicole western come Ramon il Messicano, Sartana nella valle degli avvoltoi e Uno straniero a Sacramento.

Quei 20 minuti che gli cambiarono l’esistenzaMa nel cinema non solo il genere western fu l’ambito di Aldo Berti, che lavorò a Il Mantenuto con Ugo Tognazzi, a Tempo di villeggiatura con Vittorio de Sica e a Venere imperiale con un’impeccabile Gina Lollobrigida. Maria Luisa Sapaziani, romana ed amica, lo ricorda così in una prefazione dei suoi libri: «C’era una dimensione dostoevskjana nel suo costante sorriso, nella sua indulgenza cristiana sì e no, nel suo tipo di saggezza di chi ha visto tutto e ne ha cancellato i due terzi». Nel suo libro di poesie, intitolato «Canto Finale», Aldo si descrive così: «Non ho altro destinatario che me stesso, oltre la finestra l’ossido di Roma. È inverno. È gennaio. È freddo». Aveva ormai 37 anni, conosceva le sue potenzialità di artista e «non sopportavo più l’odore dei cavalli. Dove potevo andare? Dove si faceva cinema naturalmente, quindi o Parigi o Londra o Los Angeles. Andai in tutte e tre le capitali incontrando amici, colleghi, progetti, tantissime feste, soprattutto a Londra, e portandomi dietro una delusione che cresceva a vista d’occhio. Quando sbarcai in America avevo allontanato istintivamente il motivo che mi aveva spinto laggiù lasciandomi prendere dalla mia vecchia passione: il viaggio». Colombia, Perù, Ecuador, Jamaica, Bahamas furono alcune delle sue tappe americane. Una breve pausa in Italia per ripartire nel ’79 alla volta dell’India «dove per  “Paese Sera” condussi un’inchiesta che mi portò attraverso mezzi di fortuna nei posti che la gioventù bianca aveva scelto come luoghi simbolo della loro induizzazione e che il giornale pubblicò per tre giorni di seguito in prima pagina col titolo allarmante: “20.000 italiani persi in India”».

Da qui i viaggi di Aldo si intensificarono in foreste, tribù, popolazioni ai limiti della civiltà e della sopravvivenza fino alla notte del 14 febbraio dell’84, quando risalendo il Nilo per raggiungere Juba dove si era formato il primo nucleo di «Medici senza Frontiere» che era l’obiettivo primario del viaggio, i barconi sui quali viaggiava (6 zatteroni a due piani carichi di donne, uomini e bambini trainati da una Motrice) furono attaccati a colpi di mitra, bombe a mano e dati alle fiamme. «L’inferno durò 20 minuti ,in cielo la luna era piena ,anche le acque del Nilo erano piene di piccoli corpi galleggianti. I bambini tornano a galla prima degli adulti, lo scoprii allora». Dopo una breve prigionia, Aldo venne liberato assieme agli altri 5 sopravvissuti grazie, in particolar modo, all’interesse del governo francese per il suo fotografo Paul le Carrè. «La notte del 14 febbraio 1984 io sono morto insieme alle altre centinaia di persone. Tutta la vita prima di quella data è come se appartenesse ad un altro. Ricordo tutto ma non sono cose mie. Sono nato quella notte e sono nato con la vergogna di essere sopravvissuto. Nessuno può misurare l’ingiustizia dolorosa che vive chi è partorito dalla morte degli innocenti». Fu questo l’episodio che cambiò la vita di Aldo, di un uomo che aveva vissuto tutto, interprete dei più svariati film, scrittore e poeta, amico dei maggiori artisti, attori e registi del tempo, un uomo che aveva interpretato, nel ’66, «Gli Angeli del Fango» girato a Firenze. «Vedi, caro Antonio, la vita è come un film, deve esser diretta da un solo regista, questo l’ho cercato di fare fin da giovane. Essere nati è privilegio di tutti, esser vissuti privilegio di pochi».