Alcuni malati gravissimi, ma lucidi, chiedono ad amici o parenti di essere trasportati in Svizzera per porre termine alla loro esistenza terrena. La scienza medica oggi è in grado di prolungare la vita di questi malati inguaribili anche per molto tempo. Io prego con tutto il cuore che il Signore non mi riservi un futuro così difficile. Naturalmente non giudico la scelta terribile di nessuno e tantomeno la posizione della Chiesa Cattolica. Sono un cattolico praticante e come tutti mi pongo dei problemi, che vorrei risolvere alla luce della teologia. Domando che diritto abbiamo di costringere a vivere colui che, colpito da un morbo gravissimo, non vuole più vivere.Angelo GiroldoRisponde padre Maurizio Faggioni, docente di Teologia moralePiù volte, anche su queste pagine, sono risuonate domande come quella del nostro lettore e il ripetersi della questione è segno che è arduo dare risposte definitive al dilemma delle scelte che coinvolgono persone inchiodate alla sofferenza e che non vedono soluzioni per la loro condizione. Sappiamo bene che la morale cattolica, prendendo le distanze dagli eccessi di una medicina sempre più sofisticata, ma non sempre attenta al bene autentico delle persone, insegna e ha insegnato costantemente che può essere legittimo interrompere o non iniziare terapie e interventi inefficaci, gravosi, straordinari o sproporzionati rispetto ai risultati. In questo modo non si vuole causare o affrettare la morte, ma si accetta ragionevolmente e umilmente di non poterla più procastinare senza recare ulteriore sofferenza alla persona (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica 2278). Si sta diffondendo, anche se con lentezza, una sana cultura delle cure palliative che non solo leniscono il dolore e i sintomi più devastanti di una patologia, ma si fanno carico con amore degli aspetti psichici, relazionali, spirituali della malattia. Problemi particolari pone la condizione di persone che sono in situazioni di perdita irreversibile della coscienza, come nel cosiddetto stato vegetativo permanente, di anziani con esiti più severi di patologie neurodegenerative o soggetti gravemente cerebrolesi dalla nascita. Ci si chiede – ricordiamo il drammatico caso del francese Vincent Lambert o quello della nostra Eluana – se abbia un senso continuare a sostenerli, anche soltanto con nutrizione e idratazione senza altre cure, o se non sarebbe meglio farli morire interrompendo quel sostegno vitale minimale. La morale cattolica e non solo essa ritiene che sospendere il nutrimento e l’idratazione allo scopo di porre fine a queste vite larvali è pur sempre un volere la morte di un essere umano e un provocarla direttamente, e non cambia la natura uccisiva della decisione il fatto che queste persone avessero disposto in antecedenza di farlo attraverso le disposizioni anticipate di trattamento o – quando fosse stato possibile – attraverso una pianificazione delle cure. Ho menzionato queste ultime situazioni perché in qualche modo si avvicinano ai casi di suicidio assistito che sono oggetto della domanda del nostro lettore. Ci sono persone che languono in situazioni di grave sofferenza fisica e/o psichica e che non sono né prossime alla morte, né sono tenute in vita da presidi biomedici eccezionali, così che non si può prevedere che in tempi brevi intervenga la morte. Difficile valutare il grado di insopportabilità di una sofferenza: penso, per esempio, che una persona tetraplegica dalla nascita possa adattarsi a subire la propria immobilità, impotenza e dipendenza meglio che non il giovane e sfortunato Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, passato repentinamente da una vita normale a un letto di ospedale. Avvertendo come insopportabile la sua esistenza dopo l’incidente, egli ha desiderato darsi la morte in Svizzera, aiutato da Marco Cappato. Non voglio rievocare qui tutta la vicenda con i suoi strascichi giudiziari, ma riprendere a questo proposito la domanda del lettore: «che diritto abbiamo di costringere a vivere colui che, colpito da un morbo gravissimo, non vuole più vivere?». La domanda riecheggia l’impostazione della questione tipica di buona parte della bioetica secolare o laica: si presuppone come ovvia la ragionevolezza del suicidio, almeno in certe situazioni, e ci si chiede perché la società dovrebbe impedire a qualcuno di suicidarsi, negando l’esercizio di un diritto e di fatto obbligando a vivere chi non vuole più vivere. Non entro nella discussione – non secondaria – di quanto possa essere libera da condizionamenti una persona che chiede la morte in situazioni tanto drammatiche, anche se, al contrario di tanti bioeticisti e giuristi secolari, non credo che chi vuole la propria morte la voglia in base a un ragionamento freddo e lucido. Non credo, insomma, che darsi la morte sia mai una espressione di libertà. Penso piuttosto che chi vuole la morte sia spinto dall’angoscia e dal dolore: non siamo di fronte alla lucidità di chi esercita un diritto, ma ci confrontiamo con la disperazione di chi cerca una via di fuga qualunque essa sia. Io, piuttosto, chiederei al lettore se davvero pensa che un uomo abbia il diritto di morire. Non sto parlando del diritto a non soffrire, né del diritto a rifiutare cure inutili o gravose, né del diritto di esser lasciato morire in pace, ma del diritto ad annientarsi. Rimanendo sul piano della razionalità, mi interrogherei sul desiderio di non essere. Al di là di qualunque considerazione di fede, mi chiedo se esista, anche solo davanti alla società, il diritto a darsi la morte, il «right to die» degli anglosassoni. Quello che è giusto che la società permetta o proibisca nei riguardi del suicidio e, di conseguenza, dell’assistenza al suicidio dipende da questa domanda: l’essere umano, la persona vivente è inviolabile o no? Senza alcun dubbio, la valutazione morale del suicidio messo in atto, da soli o con l’aiuto di altri, da persone tanto sofferenti non può non tener conto della loro situazione interiore, come si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica secondo il quale «gravi disturbi psichici, l’angoscia o il grave timore della prova, del dolore o della sofferenza possono attenuare la responsabilità del suicida» (CCC 2282), ma altro è rinunciare a giudicare una coscienza sconvolta e rimettere il giudizio alla misericordia di Dio, altro è affermare l’esistenza di un tale terribile diritto alla morte. In Italia, in seguito al caso Cappato, la regolazione del suicidio assistito ha avuto una brusca accelerazione che a molti cattolici – a quanto pare – è sfuggita. Dopo aver chiesto al Parlamento di intervenire sull’assistenza al suicidio, fattispecie diversa – è evidente – dalla istigazione al suicidio, la Corte Costituzionale ha provveduto autonomamente a colmare un asserito vuoto legislativo con la sentenza 242 del 25 settembre 2019 che ammette l’assistenza al suicidio di persone affette «da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche» e affida alle strutture sanitarie pubbliche – diversamente dalla Svizzera – il compito di verificare l’esistenza delle necessarie condizioni e della modalità di esecuzione del suicidio stesso. Se si conosce come avviene il suicidio assistito si capisce che è una eutanasia attiva vera e propria, pudicamente mascherata da «assistenza». L’assistente al suicidio prepara il farmaco, di solito Pentobarbital, e lo porge al paziente che lo assume per bocca oppure prepara e inserisce una flebo di Tiopentale e di altri farmaci letali e il paziente avvia da solo l’infusione, obbligato da una patetica ipocrisia a compiere da solo l’atto finale della sua morte. A questo punto, se si ritiene ragionevole decidere di uccidersi quando si è lucidi e molto malati, non pensate che presto si dirà ragionevole deciderlo anche per chi non può più o non può ancora o mai potrà decidere da solo, come un vecchio con l’Alzheimer o un neonato con sindrome di Down? Perché – ci diranno – obbligarli a vivere vite umanamente inutili? Quando una società perde di vista il valore fondamentale che è la persona e l’inviolabilità della sua vita, tutto diventa possibile. Che sia la vita mia o la vita di un altro, mai è cosa buona togliere volontariamente la vita a un essere umano. A questo proposito, sant’Agostino, commentando nell’opera La Città di Dio il comando «Non uccidere» sottolineava che la proibizione è generale e che non specifica chi non deve essere ucciso: non uccidere un essere umano, «nec alterum … nec te»: né un altro, né te stesso.