Solo i divorziati sono esclusi dalla comunione?
Sono un sacerdote. Si sa che i divorziati risposati o coloro che vivono in particolari situazioni dette «irregolari» non possono accedere alla comunione, per una serie di motivi che sappiamo. Riguardo a questo il magistero della Chiesa ha prodotto sia dei documenti «nero su bianco» (Familiaris Consortio, Direttorio di Pastorale Familiare… ), che delle catechesi o degli interventi che di tanto in tanto lo ribadiscono. Chiedo se esistano altre situazioni particolari di vita, o delle situazioni oggettive nelle quali ci si può trovare, che non permettano di ricevere, al pari dei divorziati risposati, il sacramento dell’eucarestia. Mi domando questo perchè credo che la possibilità o la non-possibilità di ricevere l’eucarestia non possa riguardare, per esempio, solo la condizione di vita di un divorziato risposato o di un convivente. Faccio un esempio. Essendo di Brescia, conosco un po’ una famosa fabbrica di armi della zona (grande esportatrice in tutto il mondo) e tempo fa ho letto un articolo che ne «elogiava» il buon andamento e il florido fatturato: mi chiedo se il responsabile di quella fabbrica, che spende molte sue energie per il suo lavoro con tutti gli annessi e connessi del caso, possa ricevere la comunione, o forse vista la sua particolare situazione di vita e le scelte che per lavoro ha fatto e sta facendo, non si trovi in contrasto con le esigenze del vangelo, come, per diversi motivi, si possa trovare magari un divorziato risposato. A me pare che molte volte la Chiesa ribadisca degli insegnamenti sacrosanti e giusti in certi campi dell’esperienza umana, ma non insista allo stesso modo in altri.
don Giancarlo A.
Precisato questo, le situazioni di vita che non consentono di accostarsi all’Eucaristia non sono purtroppo limitate alle sole situazioni cosiddette «irregolari» del matrimonio. Occorre rilevare però, che tali situazioni «irregolari» sono contraddistinte da un aspetto di stabilità esistenziale non presente altrove. Inoltre a livello di organizzazione sociale si è assistito in questi ultimi decenni ad un deterioramento dei costumi nell’ambito della famiglia e ad una legittimazione giuridica – riuscita nel caso di divorzio e aborto, in corso d’opera riguardo all’eutanasia – non paragonabile ad altri ambiti, che minano in radice le basi dell’esistenza umana. È una tale situazione che ha sollecitato il magistero della Chiesa ad approfondire e richiamare ripetutamente la verità sull’uomo rivelata dalla Scrittura. Nondimeno la Dottrina Sociale della Chiesa in oltre cento anni di interventi si è pronunciata diffusamente anche sui tanti altri campi della vita umana.
Per quanto riguarda la questione degli armamenti richiamata dal lettore per esempio, a cominciare da Pacem in terris, 45 anni fa, fino al più recente Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, è più volte ripetuto che: La produzione e il commercio delle armi toccano il bene comune delle nazioni e della comunità internazionale. Le autorità pubbliche hanno pertanto il diritto e il dovere di regolamentarli (CCC 2316). Qualsiasi accumulo eccessivo di armi, o il loro commercio generalizzato, non possono essere giustificati moralmente Le armi non devono mai essere considerate alla stregua di altri beni scambiati a livello mondiale o sui mercati interni (CDSC 508). L’atteggiamento degli Stati che applicano severi controlli sul trasferimento internazionale di armi pesanti, mentre non prevedono mai, o solo in rare occasioni, restrizioni sul commercio delle armi leggere e individuali, è una contraddizione inaccettabile (CDSC 511).
Sono solo alcune citazioni che manifestano come il Magistero della Chiesa abbia ribadito più volte il proprio insegnamento in questo campo come pure, e ancor più, in altri campi (per esempio economia, lavoro), fornendo gli elementi necessari per esaminare le proprie coscienze riguardo al peccato. Casomai c’è da chiedersi se questi pronunciamenti siano stati accolti, a tutti i livelli, con la dovuta attenzione.