Sara, la gioia della maternità
Per molte altre si addice la più ampia espressione paolina riferita ai credenti in Cristo «santi per vocazione» (cfr. Rm 1,7; 1Cor 1,2) o la definizione di sante della prima lettera di Pietro (3,5) per le spose che coltivano la speranza in Dio e si sottomettono amorevolmente ai mariti, come questi devono fare con le mogli precisa la lettera agli Efesini. Evitiamo però questa parola perché santità nella Bibbia implica per lo più separazione, trascendenza, diversità propria di Dio, come pure «personaggio» usato da R. Vignolo, Personaggi del quarto vangelo, Glossa, Milano 22003 e altri vocaboli quali eroe, figura, tipi, simboli. È preferibile qui parlare di «volti», parola più elastica e allusiva con l’obiettivo di cogliere un aspetto della persona, come in un flash. Proseguiamo, dopo Abramo, con una istantanea sulla moglie, Sara.
Sara ha un segno della benevolenza divina nella eccezionale bellezza e nella longevità, riceve la benedizione (Gen 17,16) e condivide con il marito i disagi del viaggio da Ur dei Caldei fino a Hebron. Essa spicca per la fedeltà quando Abramo la fa passare, per timore, come sorella presso il Faraone che l’annovera tra le sue concubine ed eccelle per la maternità vissuta con sentimenti diversi. L’essere madre è per Sara prima attesa angosciosa nel lungo periodo di sterilità e costrizione sofferta quando invita il marito ad unirsi alla schiava Agar, i cui figli sarebbero stati riconosciuti come propri. Poi provoca umiliazione quando la serva incinta si insuperbisce e violenza quando costringe Agar ad allontanarsi. Solo alla fine la maternità è gioia, quando nasce da lei Isacco, un nome legato al ridere. Nonostante alcuni difetti (origlia, mente, maltratta Agar) è considerata madre del popolo eletto (Is 51,2), simbolo di fede (Eb 11,11; Rm 4,19) e di libertà propria dei figli della promessa (Gal 4,21-5,1).