«Salito al cielo», «tornato alla casa del Padre»: formule da usare con cautela
Per parlare di un morto spesso si usano espressioni del tipo «è tornato alla casa del Padre» oppure «è salito al cielo». Il rischio è di banalizzare il giudizio di Dio
Ho notato che, ormai da vari anni, in occasione della morte dei fedeli, si usano espressioni del tipo «è tornato alla casa del Padre» oppure «è salito al cielo» o anche «è nelle braccia del Padre» o altre simili. Non sarebbe più opportuno, anche tenendo conto di quanto affermato al n° 1022 del Catechismo della Chiesa Cattolica, limitarsi a pregare per l’anima del defunto e lasciare il giudizio della sua destinazione ultima a Gesù Cristo che, alla fine dei tempi, tornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti?
Risponde don Gianni Cioli, docente di Teologia morale
Il numero 1022 del Catechismo della Chiesa Cattolica, a cui il nostro lettore fa riferimento, afferma: «Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamente nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre. “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore” (San Giovanni della Croce, Avisos y sentencias, 57)».
Il Catechismo intende qui riaffermare la verità di fede relativa al giudizio particolare, che avviene subito dopo la morte, e con cui viene stabilita la «destinazione ultima del defunto», senza che si debba attendere il Giudizio universale o finale che avverrà «alla fine dei tempi», contestualmente alla risurrezione dei morti. L’anima, dunque, potrà entrare fin da subito dopo la morte nella beatitudine e accedere alla visione di Dio (meritando il paradiso), oppure essere giudicata bisognosa di una fase di purificazione (il purgatorio), prima di accedere alla visione beatifica, oppure, nell’ipotesi peggiore, meritare di essere esclusa, per sempre e senz’appello, dalla possibilità di vedere Dio (l’inferno). Il giudizio finale comporterà la ratifica di quanto stabilito nel giudizio particolare e la condizione definitiva dei defunti sarà, per così dire, portata a compimento in virtù della risurrezione.
Quello che però il nostro lettore teme, appoggiandosi anche su quanto afferma il Catechismo quando ci ricorda la realtà e i possibili esiti del giudizio, è che certi eufemismi che si usano di sovente nelle circostanze luttuose, come ad esempio «tornare alla casa del Padre», possano annebbiare la consapevolezza della serietà del giudizio dopo la morte, lasciando passare l’idea che la morte sia una sorta di automatico passaggio a una vita migliore, nell’abbraccio certo e definitivo di Dio.
Il rischio, insomma, non tanto degli eufemismi di per sé, ma del modo in cui vengono usati, sarebbe quello di banalizzare la morte, privandola di quella serietà che la tradizione cristiana le ha giustamente attribuito e disinnescando il senso autentico e pieno del timore di Dio.
Penso che il lettore abbia in buona parte ragione. Se il nostro parlare della morte si riduce a una banale retorica consolatoria, che attinge solo parzialmente ai temi della fede, si rischia di far perdere di vista lo stesso senso cristiano della vita che si fonda sulla consapevolezza che, effettivamente, «saremo giudicati sull’amore».
Tuttavia, come ho già avuto modo di dire (Quei giri di parole sono un modo per evitare di nominare la morte?, in Toscana oggi, 25 novembre 2018), questo non significa necessariamente demonizzare tutti gli eufemismi con i quali ci si riferisce alla morte e che, talora, sono stati elaborati proprio in funzione della speranza cristiana. Quando, ad esempio, si dice che qualcuno «è tornato alla casa del Padre» s’intende implicitamente e necessariamente negare l’idea del giudizio? Non la si potrebbe invece dare per presupposta e considerarla implicita nella stessa metafora? Non si potrebbe, cioè, intendere il «tornare alla casa del Padre» come l’essere sottoposti, prima di entrare nella casa, al giudizio giusto del Signore, il cui esito non può e non deve essere dato per scontato, ma che la stessa speranza cristiana ci orienta a prospettare come giudizio misericordioso?