Quello che dice la Chiesa dice sulla produzione e il commercio di armi
Si parla di riarmo in Europa. Le encicliche e il Catechismo dicono cose molto precise sul ricorso alle spese militari

Sempre più in Europa sentiamo parlare di corsa al riarmo degli stati e aumento delle spese militari. Come cristiano mi sento spinto a un forte desiderio di pace ma le notizie che arrivano dai confini orientali dell’Europa incutono forte preoccupazione per una potenziale aggressione futura. Per questo motivo mi pongo la domanda se il ricorso alle spese militari possa essere in qualche modo giustificato e comprensibile dal punto di vista difensivo.
Risponde don Leonardo Salutati docente di Teologia morale
Il tema della produzione di armamenti e dunque di investimenti e di commercio delle armi, è stato più volte affrontato dal Magistero della Chiesa a cominciare da papa Giovanni XXIII nella Pacem in terris. Papa Francesco, che già nel settembre 2015 toccò l’argomento davanti al Congresso degli Usa, vi è ritornato più volte. Praticamente tutti i Pontefici deplorano gli eccessivi investimenti in armamenti e l’ampiezza del loro commercio, visti come la causa di fondo che alimenta conflitti mortali e che storna importanti risorse che avrebbero una più adeguata destinazione verso le necessità della solidarietà tra i popoli, della salute e dell’educazione.
Per considerazioni più precise possiamo riferirci al documento del giugno 1994 dell’allora Pontificio consiglio Justitia et Pax, intitolato Il commercio internazionale delle armi. Una riflessione etica. Esso è primariamente rivolto a chi è investito di responsabilità politiche o commerciali, ma interessa anche tutti i cittadini che si vogliono fare un’opinione su di un’attività che dovrebbe essere sottoposta al controllo politico.
Si deve preliminarmente notare che il documento preferisce usare l’espressione «trasferimento» di armi piuttosto che commercio, in quanto «trasferimento» indica anche le forniture gratuite e ricorda che tale attività pone un problema etico specifico, poiché vi è un rapporto stretto e indissociabile tra armi, violenza, rispetto della vita umana e dei diritti umani.
Al cuore della riflessione vi è il principio di responsabilità, in base al quale nessun venditore di armi può rinunciare alla propria responsabilità morale davanti agli eventuali effetti negativi di questo commercio in termini di mantenimento della pace, di povertà della popolazione dello stato acquirente, di sicurezza nazionale ed internazionale, di minaccia ai sistemi democratici.
Strettamente collegati al commercio delle armi sono i casi in cui sorge il diritto, se non anche il dovere, di legittima difesa, inquadrato in un complesso di ben precise condizioni, adeguatamente illustrate dal Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 2307-2317). Per cui qualora uno stato non abbia la capacità di produrre le armi necessarie a tale fine, ha il diritto di equipaggiarsi attraverso acquisti. Tale necessità fornisce l’unica legittimazione e fondamento morale alla produzione e commercio delle armi.
Le dimensioni della provvista di armi non devono però oltrepassare i limiti determinati dal principio della sufficienza che, volendo opporsi «all’accumulazione eccessiva di armi o al loro trasferimento indiscriminato», precisa che «ogni Stato può possedere unicamente le armi necessarie per assicurare la propria legittima difesa». Di conseguenza l’attività di produzione e commercio di armi non può esimersi dalle proprie responsabilità invocando la legge del mercato della domanda e dell’offerta, ma «Ogni Stato esportatore di armi è legittimamente autorizzato – e talvolta obbligato – a rifiutare a un altro Stato le armi che gli sembrano superare i limiti imposti da questo principio».
Ovviamente un paese produttore di armi che decida di applicare il principio di sufficienza vedrebbe ridurre notevolmente la sua produzione, per questo il documento richiama la necessità di «pianificare la riconversione, la diversificazione o la ristrutturazione dell’industria militare», non ignorando che una tale operazione si presenta esigente. Tuttavia, tali difficoltà «per quanto reali, non possono legittimare il mantenimento di un’industria degli armamenti semplicemente in nome dei rischi legati alle ristrutturazioni o in vista della salvaguardia dei posti di lavoro». Come pure «è privo di qualsiasi fondamento morale» l’argomento spesso invocato che «se uno Stato si rifiuta di fornire armi, un altro lo farà al suo posto».
Nonostante la favorevole ricezione del documento negli ambienti militari e politici dell’epoca, soprattutto in forza del suo incentrarsi sull’etica della responsabilità, a quasi 30 anni di distanza dalla sua pubblicazione il commercio delle armi non è stato né moralizzato né posto sotto un diretto controllo politico che, se è efficace a livello di esecutivo, è praticamente inesistente a livello parlamentare, almeno tra i principali esportatori di armi.
A questo riguardo continua a essere attualissimo il monito lanciato 60 anni fa dal Concilio Vaticano II: «È necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi. (…) La Provvidenza divina esige da noi con insistenza che liberiamo noi stessi dall’antica schiavitù della guerra. Se poi rifiuteremo di compiere tale sforzo non sappiamo dove ci condurrà la strada perversa per la quale ci siamo incamminati» (Gaudium et spes, n. 81).