Quei giri di parole sono un modo per evitare di nominare la morte?
Leggendo assiduamente il settimanale mi sono accorta che molto spesso, invece di utilizzare la parola «morte», si usano termini come «scomparsa», «transito», «trapasso». Allo stesso modo, al posto di dire che qualcuno è morto si preferisce esprimersi con termini come «splende di nuova luce», «non è più tra noi», «è salito al Padre», «si è spento», «è venuto a mancare». Non è che con certe espressioni (sovente riferite anche a preti e suore) anche noi cristiani tendiamo ad esorcizzare la morte pur avendo fede nell’aldilà?
Fiammetta Fiori
Credo che la lettrice abbia ragione nel considerare con preoccupazione la tendenza a censurare il tema della morte che, nel corso del XX, secolo ha preso campo nelle società occidentali (cf. Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente: dal Medioevo ai giorni nostri, Milano 1978).
Nella Chiesa e nella società tornare a parlare senza imbarazzo della morte è oggi, a mio parere, non solo opportuno ma anche necessario. La coscienza della sua ineluttabilità ci permette infatti di prepararci meglio ad affrontare il momento della morte e ci aiuta a vivere la vita con più generosità e amore, mentre la sua completa rimozione dall’orizzonte dei nostri pensieri quotidiani induce angoscia e paura.
Inoltre il non censurare la morte a livello sociale appare un presupposto imprescindibile per dare, a chi abbia subito la perdita di un congiunto, la possibilità di elaborare adeguatamente il lutto senza imbarazzi e remore, esprimendo pubblicamente e simbolicamente il proprio dolore, per ricevere la solidarietà altrui. Il dolore per una perdita importante non può ridursi a un mero fatto privato. Significativi studi nel campo della psicanalisi come nel campo dell’antropologia culturale hanno messo in evidenza l’importanza della manifestazione sociale del lutto. Là dove questa viene a mancare perché la morte è rimossa dalle relazioni sociali cresce il disagio e si facilitano i casi di depressione.
Sono convinto che la predicazione e la catechesi proposte dalla Chiesa debbano oggi dedicare particolare attenzione non solo alla morte ma anche alle tematiche escatologiche in genere, dette altrimenti anche novissimi, per riaffrontarli con un linguaggio adeguato alla cultura contemporanea.
Premesso questo non sono invece d’accordo sul fatto che l’utilizzo di eufemismi per definire la morte – utilizzo che la lettrice ravviserebbe sovente anche nelle pagine di Toscana oggi – debba essere indicativo di questa tendenza «ad esorcizzare la morte» stessa.
In effetti l’uso di eufemismi per definire la morte e tutto ciò che ad essa è collegato non è affatto una prerogativa della cultura postcristiana ma, al contrario, è ampiamente presente nella tradizione cristiana già a partire dal Nuovo Testamento e, piuttosto che il tentativo di esorcizzare la morte, può essere espressione della volontà di parlarne in maniera qualificata, con rispetto e delicatezza per le persone che vivono il lutto e, soprattutto, con uno sguardo particolare all’orizzonte della fede.
Se ad esempio mi rivolgo a chi vive una situazione di lutto manifestandogli la mia partecipazione al suo dolore per la perdita del caro congiunto, o mi esprimo dicendo che l’amico è venuto a mancare, non voglio necessariamente esorcizzare la morte né tanto meno banalizzarla, ma probabilmente la considero nella sua serietà dolorosa di perdita incolmabile che ha bisogno di essere affrontata con il tempo e l’accompagnamento della comunità, in particolare degli amici. Se ricordando qualcuno che è stato significativo per la comunità lo definisco come il nostro compianto amico piuttosto che semplicemente come il nostro amico che è morto, voglio semplicemente sottolineare che siamo stati addolorati dalla sua morte e che ci manca, che si sentiamo insomma un po’ orfani. Se poi dico che splende di nuova luce, o che è salito al Padre – per riferirmi ad eufemismi ricordati dalla lettrice – potrei magari anche inconsciamente voler esorcizzare la morte, ma forse voglio piuttosto semplicemente esprimere e condividere un sentimento di speranza cristiana. Anche quando si parla di transito o di passare a miglior vita ci si rifà di fatto, che ne siamo consapevoli o no, ad espressioni della tradizione cristiana potenzialmente significanti la certezza di fede che, a chi è fedele, «la vita non è tolta ma trasformata».
Oltretutto, come si diceva, eufemismi particolarmente significativi circa la morte sono già presenti nel Nuovo Testamento, in genere con una ben precisa implicanza teologica.
Quando ad esempio Paolo usa il termine morte senza ricorrere ad eufemismi (in greco la parola è Thanatos) si riferisce per lo più al volto negativo della morte stessa in quanto frutto del peccato: essa sarà «l’ultimo nemico ad essere annientato» (1Cor 15,26); quando invece intende parlare della morte in senso positivo nell’orizzonte della salvezza egli ricorre in genere ad eufemismi. Ad esempio in 1Ts4,13 Paolo chiama i morti «i dormienti» (ton koimomenon da cui la parola cristiana cimitero, ovvero dormitorio) e lo fa in riferimento alla fede circa la risurrezione che i Tessalonicesi non avevano del tutto chiara. In Fil 1,23 per dire che vorrebbe morire l’Apostolo dice che vorrebbe «essere sciolto» (analysai) per essere con Cristo (così come si sciolgono gli ormeggi delle navi per metterne la partenza). Ma lo stesso Gesù, nei vangeli, usa eufemismi per parlare della morte con una qualificazione teologica: ad esempio e in Gv 11,11 egli afferma a proposito di Lazzaro che era morto: «il nostro amico dorme» (kekoimetai), volendo evidentemente alludere al fatto che lo avrebbe risuscitato.
In conclusione, gli eufemismi a riguardo della morte ci sono sempre stati nel linguaggio umano, anche – e in particolare – in quello cristiano. Anzi nel linguaggio cristiano hanno spesso avuto la felice funzione di offrire della morte un’interpretazione teologica ben precisa. Sebbene – lo concedo – oggi si possa correre il rischio, in un contesto culturale scristianizzato, di usarli per consuetudine e senza riflettere sulla loro pregnanza.