Quando l’anziano è agitato: la necessità di trovare col medico la cura più adatta
Di fronte a una persona anziana e inferma, a volte ci troviamo a una scelta difficile. La risposta del teologo
Di fronte a una persona anziana e inferma, ci troviamo a una scelta difficile. Era molto agitata, e difficile da gestire. Il geriatra ha prescritto dei medicinali che la fanno stare più tranquilla. L’effetto però è di vederla spesso addormentata, o sonnacchiosa, e poco reattiva. Ci troviamo quindi a pensare se ridurre il farmaco, per vedere se riprende un po’ di vitalità. Con il rischio però che riprenda a lamentarsi. A parte il parere medico, eticamente quale può essere la strada consigliata? Mi piacerebbe avere una spiegazione di quello che suggerisce la dottrina cristiana. Grazie se vorrete rispondermi.
Lettera firmata
Risponde padre Maurizio Faggioni, docente di Teologia morale
La questione posta dalla nostra lettrice è di interesse generale perché capita sovente, nel corso dell’assistenza ad anziani, ma non solo, tanto a casa quanto in istituto, di trovarsi di fronte a persone confuse e agitate, così che diventa davvero difficile prendersene cura. I farmaci che vengono somministrati per calmare la persona e contenere lo stato di agitazione hanno di regola effetti collaterali, più o meno accentuati a seconda del farmaco, della posologia, della risposta individuale e, tra questi effetti, frequenti sono il torpore, la sonnolenza, una minore reattività all’ambiente e agli stimoli.
Sarebbe, però, un comportamento imprudente e, quindi, non morale provvedere autonomamente, senza consultare lo specialista, a modificare le indicazioni terapeutiche. Il problema deve essere discusso con il medico presentando la situazione e verificando insieme la linea terapeutica migliore.
Il principio basilare che la morale cattolica segue nel valutare la adeguatezza etica delle cure è che le cure sono per il bene della persona, di quella persona, in quella precisa circostanza. Conservare una certa consapevolezza di sé e una capacità di relazionarsi con gli altri, nonostante il declino intellettivo, sono beni auspicabili perché sono fra le qualità più nobili dell’essere umano, ma a volte il sollievo della persona chiede di intervenire con presidi farmacologici che attenuano anche queste capacità residuali. Si tratta, quindi, di trovare i farmaci più adatti per ottenere il sollievo del paziente, intaccandone il meno possibile la vigilanza, la coscienza, la reattività. L’esperienza dello specialista suggerirà i farmaci più adatti e i necessari aggiustamenti posologici.
La lettrice rivela sensibilità e – immagino – un coinvolgimento affettivo quando manifesta il timore di non riuscire a trovare questo equilibrio fra «tranquillità» e «vitalità», come si legge nella lettera, con il rischio che un’attenuazione della terapia possa causare una ripresa dell’inquietudine e della sofferenza. Non possiamo mantenere una maggiore reattività dell’infermo a prezzo di una sofferenza che potrebbe essere evitata con una sedazione più robusta. Addirittura la morale cattolica insegna, fin dai tempi di Pio XII, che possono darsi ragioni gravi – noi oggi parliamo di sintomi refrattari – nelle quali è lecito togliere attivamente e direttamente la coscienza a un morente: è la cosiddetta sedazione profonda. Non è la situazione prospettata dalla nostra lettrice, ma fa capire con chiarezza l’atteggiamento della morale cattolica in questo ambito.
Ben diverso è il caso in cui la somministrazione di farmaci attivi sul sistema nervoso centrale viene spinta, spesso all’insaputa dei curanti, oltre il bisogno del paziente, allo scopo di non essere molestati dal suo perpetuo lamentarsi, di non doversi preoccupare di vigilare sulla sua agitazione psichica e motoria, di non essere continuamente disturbati dalle sue chiamate, soprattutto la notte, una notte dopo l’altra. Si comprende la fatica di chi deve prestare assistenza e questa fatica deve essere alleviata, per quanto possibile, anche per il bene dell’infermo, ma non si può annientare la mente di una persona per il comodo di chi avrebbe il compito di prendersene cura.