Quando la terapia diventa «accanimento»
Ho letto su un giornale che secondo la testimonianza di un cardinale della Curia romana, Giovanni Paolo II rifiutò di essere portato in ospedale per essere curato, e preferì restare a casa pur sapendo che sarebbe morto in pochi giorni. Così facendo il Papa, spiega il cardinale, si oppose all’accanimento terapeutico, ossia a cure che sarebbero state sproporzionate e inutili. Ma qual è esattamente la differenza tra il rifiuto dell’accanimento terapeutico e l’eutanasia? Chi, e secondo quali criteri, ha il compito di decidere quali cure sono giuste e quali invece diventano eccessive? Ci sono criteri assoluti, o c’è uno spazio per la volontà personale? E se la persona è in coma, o non è in grado di decidere, chi può farlo al suo posto?
Mario Fantini
Risponde p. Maurizio Faggioni, docente di Teologia morale
Negli ultimi tempi i giornali sono tornati a parlare del calvario di papa Giovanni Paolo II, un calvario vissuto con grande dignità e cristiana fortezza sotto lo sguardo commosso del mondo. Qualcuno ha messo in dubbio la correttezza e tempestività delle scelte fatte per la sua assistenza e la loro coerenza con gli insegnamenti della morale cattolica.
La morale cattolica pensa che sia ragionevole e, quindi, doveroso per una persona mantenersi in vita e in salute. Ovviamente i mezzi da usarsi per mantenere la vita e la salute sono quelli che è concretamente possibile usare e che danno fondate speranze di essere, almeno in qualche misura, utili allo scopo. In certe circostanze una determinata cura potrebbe risultare del tutto inefficace o insopportabile o, addirittura, nociva per il paziente perché, per esempio, gli prolunga la vita in un modo penoso senza dargli speranze né di guarigione né di migliorare la qualità della sua vita.
Nel caso di papa Giovanni Paolo II la sindrome di Parkinson, che l’ha portato alla morte, è stata contrastata per anni con terapie farmacologiche e in diversi modi si è cercato di sopperire alle difficoltà di movimento, nonché di curare i molti disturbi che via via si presentavano. Una crisi respiratoria, verificatasi il 23 febbraio, aveva indotto i curanti a praticare una tracheotomia. Negli ultimi tempi, la difficoltà di deglutire aveva consigliato il posizionamento di un sondino per l’alimentazione e, fino a che è stato possibile, il sondino gli è stato tolto e riposizionato – con grande sofferenza, immagino – perché il Santo Padre desiderava sino all’ultimo potersi presentare e parlare ai fedeli. Si affacciò per l’ultima volta alla finestra di Piazza san Pietro, senza poter parlare, domenica 27 marzo, giorno di Pasqua. Nell’ultima settimana le condizioni del Santo Padre si aggravarono rapidamente e la morte era ormai imminente: fare ulteriori trattamenti in prossimità della morte sarebbe servito soltanto a prolungare in modo innaturale l’agonia, iniziata la mattina del decesso, il 2 aprile.
In generale, la decisione di rinunciare a praticare un qualsiasi intervento terapeutico per essere moralmente accettabile, non deve essere mossa dalla volontà di morte perché non esiste un diritto a darsi la morte. Un cristiano prende le sue decisioni a partire dalla consapevolezza del valore intangibile della vita, ma egli sa, allo stesso tempo, che è segno di sapienza accettare i limiti delle possibilità umane di intervento di fronte a una morte inevitabile e prossima. Procurare la morte è eutanasia, ma accettare il subentrare della morte, è saggezza. Perciò, il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che talora può essere legittimo sospendere o rifiutare terapie «gravose, pericolose straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi» (CCC, n. 2278).
Talvolta può darsi anche il caso che una terapia, giudicata dai medici tecnicamente proporzionata risulti, in una certa situazione, straordinaria e, quindi, non doverosa per quel particolare paziente in relazione alle sue condizioni fisiche, psicologiche, sociali ed economiche, come già insegnava Pio XII nel 1957. Si può, in buona coscienza, rinunciare a una terapia se questa è ragionevolmente percepita da un malato come insostenibile, gravosa, penosa e non fa sperare di migliorare la sua condizione.
Le decisioni sulle cure e sulle terapie devono essere prese dal paziente, in dialogo con i medici nel contesto di una relazione sincera fra persone, la cosiddetta alleanza terapeutica. Se il malato non è in grado di prendere queste decisioni subentrano i familiari o altri soggetti – secondo quanto previsto dalle leggi – che cercheranno di valutare quello che è meglio per lui. Ma, ovviamente, fare il bene di una persona non può mai significare sopprimerla, sia con comportamenti attivamente uccisivi, sia con l’astensione da cure essenziali, come l’alimentazione e l’idratazione.