Quale traduzione per il «Padre nostro»?
In questi ultimi anni ho sentito a volte una nuova formulazione del Padre Nostro in cui si recita, al posto di «e non ci indurre in tentazione», «e non abbandonarci alla tentazione». Qual è la versione giusta?
Fabio Di Guerra
La domanda del nostro attento lettore mi dà l’occasione di fare alcune riflessioni che da tempo sto elaborando.
Innanzitutto consiglio la lettura di un articolo del P. Pietro Bovati S.J. apparso su Civiltà Cattolica qualche mese fa (3/17 febbraio 2018, anno 169, numero 4023), intitolato «Non metterci alla prova». A proposito di una difficile richiesta del Padre Nostro. Ne condivido in pieno l’impostazione e il contenuto. Al suo contenuto aggiungo alcune mie considerazioni che ritengo importanti.
Ufficialmente le due traduzioni citate dal lettore sono entrambi «giuste». In effetti la prima, quella classica (e non ci indurre in tentazione) è quella «liturgica» ancora in uso nel Messale, nella Liturgia delle Ore e nella pietà comune del popolo italiano. L’altra (e non abbandonarci alla tentazione) è invece la formulazione che troviamo nell’ultima traduzione della Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana ai passi di Matteo 6,13 e Luca 11,4 (edita nel 2008 e entrata in vigore come obbligatoria della liturgia a partire dal 2010). In questo modo, nella stessa liturgia della Messa possiamo avere una situazione per la quale durante la proclamazione del Vangelo (nei casi di Matteo 6,13 e Luca 11,4) sentiremo leggere «e non abbandonarci alla tentazione», mentre durante il rito della comunione, reciteremo lo stesso Padre nostro, dicendo assieme «e non ci indurre in tentazione». Una discrepanza che occorrerà prima o poi risolvere con la nuova edizione (che si attende da anni) del Messale in concordanza con la nuova traduzione della CEI, in modo da avere le stesse parole nel messale e nel lezionario.
I motivi che hanno indotto i vescovi italiani a cambiare la classica formulazione del Padre Nostro si riconducono sostanzialmente al fatto che «non indurci» appare fastidioso, se non odioso, e quindi inaccettabile, giacché implica che Dio possa «indurre», «spingere» alla tentazione.
Il verbo greco dei vangeli (eispherô) che è tradotto con «indurre» in effetti significa «portare verso, portare dentro», ma può anche essere inteso e reso in altri modi (non permettere che entriamo, non farci entrare, ecc.). Ma tant’è! Nella traduzione latina classica e poi nell’italiano che conosciamo ha prevalso «indurre» per rispettare la letteralità del verbo greco. All’orecchio moderno però – giustamente – l’«indurre in tentazione» non aiuta a pregare il Dio buono e misericordioso che conosciamo.
La nuova traduzione della CEI ha cercato di ovviare a questa percezione sostituendo l’espressione tradizionale con la formula «e non abbandonarci alla tentazione». Tuttavia, solo apparentemente – a mio modesto parere – è una buona soluzione. Certo all’orecchio suona molto meglio, ma mi sembra che lasci diverse perplessità.
Innanzitutto non appare rispettosa del tenore originario del verbo greco che ha le caratteristiche di un verbo attivo e che indica un movimento spaziale. La storia dell’esegesi, fin dall’antichità, a partire dalla matrice semitica della lingua greca dei vangeli, ha cercato di intenderlo in senso permissivo (non permetter che entriamo, non consentire che entriamo, ecc.) con buoni risultati interpretativi. Il verbo «abbandonare», invece, ci allontana sia dal tenore originario del verbo, sia dalla storia della sua interpretazione.
In secondo luogo, il verbo «abbandonare» in italiano può assumere diverse accezioni (smettere, lasciare solo, non prendersi cura, desistere, allentare, ecc.) a seconda dei contesti. Ora, «non abbandonarci alla tentazione» cosa significa esattamente? L’espressione mi sembra possa voler dire due cose: «non lasciarci soli quando siamo nella tentazione (ma ci vorrebbe un “nella tentazione”)»; oppure: «non lasciarci alla deriva della tentazione». La formulazione sembra avvalorare la seconda ipotesi. La prima in effetti è un po’ estranea al senso originario evangelico, che indica, piuttosto, un’azione da parte di Dio «prima» della tentazione (per evitarcela) e non nel suo svolgersi (aiutarci nella tentazione).
Ora, il problema della domanda in questione del Padre Nostro è che essa è in negativo. Si chiede a Dio di «non» fare qualcosa, che però potrebbe fare. Giustamente gli chiediamo di non «indurci» in tentazione perché potrebbe farlo e questo sembra inaccettabile. Ma allora, anche «non abbandonarci alla tentazione» diventa problematico, giacché significa che Dio può lasciarci in balia di essa. Quindi il problema che questa nuova traduzione voleva risolvere di fatto rimane sotto altre spoglie (Dio può indurci in tentazione, ovvero Dio può abbandonarci alla tentazione).
Credo che occorra prendere la questione in altro modo, giacché accanirsi sul verbo sembra non portare molto giovamento.
In effetti oltre il soggetto (Dio) e il verbo (indurre o abbandonare) la petizione che facciamo alla fine del Padre Nostro mette a tema anche la destinazione dell’azione di Dio, che normalmente denominiamo «tentazione». Il termine traduce il sostantivo greco peirasmos che ha una gamma di significati come prova, tentativo, tentazione, esame, test, esperienza, sollecitazione. È il grande campo semantico dello sforzo, del tentativo, dell’esame, dell’esperienza. La classica traduzione «tentazione» è in effetti una delle accezioni possibili, e visto il contesto religiosamente caratterizzato, appare una delle più appropriate. Ma culturalmente parlando nel nostro popolo cristiano medio l’idea di tentazione è legata ad una sollecitazione al male, ai vizi capitali, e non ultimo al diavolo tentatore. Naturalmente tutte queste caratterizzazioni sono implicite nella domanda del Padre Nostro, ma ritengo che siano restrittive e che non aiutino a pregare. In effetti, la Sacra Scrittura ci segnala numerosi esempi in cui Dio, per saggiare la fedeltà, la lealtà, l’amore delle sue creature, le mette alla prova in diversi modi. Tutti noi ricordiamo Abramo, il popolo nel deserto e tanti altri personaggi biblici, non ultimo Gesù stesso, i quali sono stati messi alla prova. Di nessuno di loro ci verrebbe da dire che sono stati «indotti in tentazione», mentre non esiteremmo ad affermare che Dio li ha messi alla prova (come anche Gesù attraverso le tentazione del diavolo).
Ritengo che una traduzione che allarghi il concetto di tentazione non confinandolo alla pruriginosa questione delle tentazioni carnali (gola, lussuria, invidia, ecc.) possa aiutare a percepire l’azione educativa di Dio che vuol far crescere i suoi figli nella fede e nell’amore, anche attraverso diverse esperienze che «mettono» alla prova la nostra appartenenza a Dio, fortificandola e confermandola.
Inoltre, la domanda che facciamo non dovrebbe essere quasi una sorta di doppione dell’ultima in cui chiediamo di «liberarci dal male» o come alcuni ritengono «dal maligno».
Per questo la proposta di P. Bovati nell’articolo sopra citato mi sembra ottima: «e non metterci alla prova». Credo che essa abbia molti vantaggi. Innanzitutto è perfettamente comprensibile da qualsiasi italiano giacché è una locuzione che è di uso corrente in altri ambiti oltre quello religioso. In secondo luogo evita di focalizzare il problema sul peccato e la sua istigazione, ma piuttosto sulla dinamica fondamentale della vita nel suo svolgersi di fronte a Dio. In terzo luogo l’idea di «mettere alla prova» permette di abbracciare diverse situazioni della vita che sentiamo dure da affrontare non trovando un significato (per esempio la malattia, il lutto), ma che comprese nell’azione pedagogica di Dio possono diventare esperienze di crescita e di rafforzamento della fede. Infine, evitiamo una immagine di Dio un po’ sadica che le vecchie traduzioni potevano lasciar intendere. È, quello cristiano, un Dio che ama i suoi figli e che, quindi, per il loro bene può anche metterli alla prova per saggiarne la tempra e fortificarne la fede.
Naturalmente, sull’esempio di Gesù, e conformemente al dettato biblico, possiamo chiedere a Dio nella libertà del dialogo con lui che Gesù ci ha insegnato, di non metterci alla prova, temendo di non poterla superare, ma senza nemmeno impedire a Dio che possa, per il nostro bene e la nostra crescita, usare delle varie circostanze della vita per mettere alla prova, accompagnandoci con il suo aiuto perché la superiamo, la nostra appartenenza a Lui. Del resto rimane come paradigma di ogni preghiera in questo senso quella di Gesù stesso nel giardino del Getsemani: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice (questa prova), ma non la mia, ma la Tua volontà sia fatta», perfettamente corrispondente alle domande del Padre Nostro.
Filippo Belli