Quale gestualità durante la Messa?
Senza che nessuno l’abbia imposto e neppure consigliato e neanche suggerito, si è andato affermando nelle chiese, durante la messa, l’uso di recitare coralmente il Padre nostro tenendosi mano nella mano, mentre nella prassi della Chiesa l’atteggiamento dell’orante è quello della braccia aperte e le mani levate in alto. Questo è l’unico gesto che viene ormai eseguito nel corso della celebrazioni (sì, c’è l’inginocchiarsi durante la consacrazione e/o dopo la comunione, ma è vario ed eventuale). Il resto del tempo, le mani stanno ciondoloni o a dita intrecciate o in grembo o dietro la schiena. Qualcuno le tiene in tasca, certo, ma dei maleducati qui non discorriamo. Un tempo, non molto tempo fa, «pregare» era indissolubilmente legato al gesto delle mani giunte. Lo si fa ancora, d’istinto, quando supplichiamo qualcuno di darci retta.
L’origine del gesto risale ai tempi del feudalesimo, quando il vassallo prestava giuramento in ginocchio ponendo le sue mani giunte tra quelle del suo signore, cui prometteva fedeltà e da cui si aspettava protezione. Certo, il feudalesimo è sparito da un pezzo ma il Signore è ancora lì. Dunque, il pregarlo a mani giunte conserverebbe intatto tutto il suo significato.
Non è detto che nella liturgia non ci debba essere il giusto spazio per la creatività, o che non sia lecito trovare modalità di espressione corporea sempre più vicine alla sensibilità dell’uomo di oggi, ma questo deve essere fatto con estrema prudenza e con sufficiente motivazione per evitare di banalizzare la celebrazione liturgica, e comunque sempre in accordo con lo spirito della liturgia, così che ciò che esprimiamo con il corpo sia in sintonia con quello che proclamiamo con la voce e professiamo con il cuore.
L’esempio del Padre nostro, a cui ti riferisci, è emblematico a riguardo. Il gesto di prendersi per mano, nato in un contesto celebrativo giovanile e diffuso a macchia d’olio anche alle liturgie parrocchiali, è sicuramente molto bello ed esprime chiaramente la relazione fraterna che unisce i figli di un unico Padre, ma non ha minimamente la stessa forza simbolica dell’antico gesto dell’orante, che, per altro, l’edizione del Messale romano del 1983 ha finalmente riscoperto ed esteso a tutti i partecipanti alla liturgia. Colui che prega in piedi e con le braccia alzate esprime con il corpo, prima che con le parole, una tensione verso il «Padre», l’attesa (escatologica) di un evento: «venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà », e l’aspettativa di un dono gratuito: «dacci il pane quotidiano, rimetti i nostri debiti, liberaci dal male». Esprimere questo momento alto della preghiera liturgica con un gesto di comunione fraterna, qual è appunto il darsi la mano, mi pare riduttivo e banalizzante, e finisce, poi, per svilire anche il gesto seguente dello scambio della pace col quale si esterna la volontà di riconciliazione.
Questo del Padre nostro non è che un esempio. La stessa riflessione potremmo estenderla ad altri momenti della liturgia che spesso si caricano estemporaneamente di nuovi gesti, applausi, abbracci e quant’altro, ma non è questa per me la cosa più importante. Non si tratta di inaugurare una nuova campagna contro gli abusi liturgici – ce ne sono state e ce ne sono fin troppe – che non conduce a niente, ma di domandarci il perché avvenga tutto questo. Io credo che tra i motivi principali, ci sia la mancanza di una autentica introduzione alla preghiera liturgica e una inadeguata spiegazione del linguaggio simbolico della liturgia nei cammini di iniziazione cristiana. Molti segni e gesti tradizionali della liturgia hanno perso la loro capacità comunicativa e, spesso, non li avvertiamo più vicini alla nostra sensibilità, solamente perché non ne comprendiamo più il significato. E questo semplicemente perché nessuno più ce lo spiega! Avviene così che, in modo troppo sbrigativo e acritico, anche da parte di noi preti, si introducano nella liturgia gesti, linguaggi o canti che appartengono propriamente al mondo della comunicazione di massa e che, non sempre, si adattano al particolare codice comunicativo liturgico.
Ma c’è un altro problema di ancor più difficile soluzione, e riguarda il nostro rapporto con il corpo. Nonostante che nel cristianesimo il corpo abbia una singolare e straordinaria centralità, per noi occidentali esso è avvertito più platonicamente come ostacolo, che come mezzo privilegiato per comunicare la fede. È estremamente significativo il riferimento che fai nella tua lettera all’imbarazzo che spesso proviamo nel non sapere dove «mettere le mani» durante la celebrazione. È segno di un corpo che non partecipa, che è di impaccio, ed è passivo rispetto ad un evento, l’incontro con il Risorto, che è vissuto solo con l’intelletto.
Sono fermamente convinto che per riscoprire e vivere in profondità la liturgia con la sua antica gestualità, sia oggi più che mai necessario un cammino educativo di riappropriazione del nostro corpo perché, nel momento celebrativo, sia strumento attivo di dialogo con il Risorto e con la comunità.
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