Non mi sembra che nel Vangelo compaia mai la parola Trinità. Volevo sapere allora quando si è affermato questo termine.Massimo CaputiRisponde mons. Angelo Pellegrini, docente di Teologia dogmaticaIl lettore nota correttamente il fatto che il termine Trinità (come del resto accade per il termine «persona») non compaia nei quattro Vangeli e neppure nei restanti testi del Nuovo Testamento. Potrebbe apparire strano che il termine chiave di uno dei due elementi di fondamentale novità del messaggio cristiano – ossia il mistero trinitario (l’altro è quello dell’incarnazione del Figlio in Gesù Cristo, unica persona veramente divina e umana) – non figuri nella Sacra Scrittura.Prima di provare a rispondere al quesito del lettore è necessario anteporre una duplice premessa. Innanzitutto il tenore della domanda comporta, pur riducendoli al minimo, di indicare alcuni elementi tecnici della questione, che risultano inevitabili.Il secondo aspetto della premessa impone un accenno, che però non può essere sviluppato adeguatamente in questa sede: il Nuovo Testamento presenta chiaramente tre soggetti distinti, ma non totalmente separabili, che chiama Padre, Figlio, Spirito Santo: di questi soggetti viene indicata la realtà unica o divinità (ad esempio in Gv 10,30: «Io e il Padre siamo una cosa sola») in comunione d’amore totale e comunicabile (Gv 14, 23: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui»; cfr. Gv 17,20-23); la stessa formula battesimale secondo il Vangelo di Matteo include lo Spirito Santo in questo mistero di unione, comunione, ma anche distinzione e individuazione dei tre soggetti (Mt 28,19: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»; cfr. Mc 1,8.10; Lc 3,16.22; Lc 12,10; Gv 1,32-33). Il Paraclito è al cuore del mistero della rinascita redentiva (Gv 3,5: «in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio») e guida al conseguimento della salvezza eterna (cfr. Gv 16,13-15).Queste e molte altre particolari espressioni del Nuovo Testamento hanno indotto i cristiani, fin dai primi secoli, a porsi la domanda su che cosa fosse tale realtà misteriosa, la quale presenta un unico Dio e allo stesso tempo tre soggetti più o meno chiaramente individuati e dotati di caratteristiche divine. Da questo fatto non scaturisce solamente quella riflessione teologica che oggi chiamiamo “teologia trinitaria”, ma prima di tutto emerge la necessità di trovare una terminologia adeguata che possa indicare la realtà comunionale di una siffatta divinità: unica e distinta in tre soggetti pienamente divini, senza per questo affermare tre diversi dèi.Il termine Trinità risponde, fin dalle origini, a questa necessità, non senza aver suscitato qualche complicazione.Nella lingua greca vi era il termine, Triás, utilizzato anche da esponenti di varie espressioni religiose gnostiche (sia a matrice cristiana che non cristiana, talvolta pre-cristiana) il quale incava delle «triadi» (come nella religione Sethiana); i soggetti delle triadi in genere non erano considerati divini, ma soltanto realtà intermedie fra la sfera del divino e quella del mondo: perciò l’opera dei primi cristiani di lingua greca si presentò, da questo punto di vista, come l’arduo tentativo di impiegare quel termine differenziandosi da quanto accadeva in altri contesti culturali e religiosi.Da quanto mi risulta il primo a provarci fu Teofilo d’Antiochia († 185), al quale risultò però molto difficile liberarsi dai significati che il termine aveva presso gli gnostici. Il discutibile risultato di Teofilo: egli in positivo applicò il termine Triás, ma nel contesto poteva indurre a pensare che la vera divinità Dio risiedesse soltanto nel Padre, ponendo in posizione subordinata, e quindi non considerandoli effettivamente divini, il Figlio e lo Spirito (Teofilo non li denominò direttamente, ma in modo discutibile mediante i vocaboli «Parola» e «Sapienza»). Ciò non scoraggiò i Cristiani di lingua greca, né i latini.Triás venne quindi perfezionato nei suoi significati e utilizzato nelle grandi teologie da Ireneo, Clemente Alessandrino, Origene in poi, per quanto concerne il mondo greco; mentre, da Tertulliano, Novaziano, Mario Vittorino, S. Agostino in poi, nel mondo latino fu usato il termine Trinitas/Trinitatis. Il vocabolo latino presentò minori problemi di quello greco, poiché, di fatto, si tratta di un termine più strettamente ecclesiastico e di impiego esclusivo, o quasi, per indicare il mistero cristiano della divinità; invece, per evocare il concetto comune di «triade», in latino poteva essere utilizzato più semplicemente trias/triadis, calco del termine greco Triás.Triás e Trinitas, in latino, costantemente divennero sempre più capaci di esprimere quel mistero che la scrittura addita. Da quanto mi consta, in una lettera del vescovo di Roma, Dionigi (259-268), indirizzata al vescovo di Alessandria, anch’egli Dionigi (247 o 248-265), comparve la prima testimonianza scritta (il testo ci è pervenuto in greco) dell’uso del termine Triás (per la precisione triáda – DS 112; cfr. 112-115) all’interno di documenti che oggi definiremmo ufficiali o anche magisteriali del vescovo di Roma.Il vocabolo, da questi esordi, si è consolidato nell’uso quasi bimillenario per indicare il mistero della comunione dei tre soggetti divini (oggi detti «persone») di cui narra il Nuovo Testamento: esso, dunque, indica con efficacia l’unicità di Dio, il quale è comunione d’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito, come afferma sinteticamente e con grande chiarezza il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La Trinità è una. Noi non confessiamo tre dèi, ma un Dio solo in tre persone: “la Trinità consustanziale” (DS 421)» (§ 253); infatti: «Il mistero della Santissima Trinità è il mistero centrale della fede e della vita cristiana. Soltanto Dio può darcene la conoscenza rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo» (§ 261).