Perché preti, frati e suore non possono sposarsi?
La risposta di padre Valerio Mauro, docente di Teologia sacramentaria
Volevo sapere il motivo per cui i preti e le suore non si possono sposare.
Marta Meroni
Risponde padre Valerio Mauro, docente di Teologia sacramentaria
Nonostante la semplicità della domanda della lettrice, una risposta esauriente richiederebbe ben altro spazio di quello concesso in questa rubrica. Una prima distinzione, però, va fatta, separando la vita dei religiosi, suore e frati, da quella dei preti. Si tratta, infatti, di due situazioni diverse secondo le rispettive vocazioni. Suore e frati appartengono a quella che si chiama «vita consacrata», per la quale donne e uomini, volendo seguire da vicino le orme del Signore Gesù, sommamente amato, dedicano a lui la loro esistenza, in una tensione radicale nella carità verso Dio e verso il prossimo, attraverso quelli che la tradizione ha definito i consigli evangelici.
Con i voti di povertà, castità e obbedienza i consacrati cercano di uniformare la propria esistenza a quella di Gesù. La comune vocazione battesimale viene da essi vissuta in una forma cristologica radicale. Nello specifico, con il voto di castità i religiosi indicano come solamente Dio possa colmare pienamente il desiderio d’amore insito nel cuore dell’uomo; anticipano fin d’ora la situazione che godremo tutti nel Regno definitivo dei cieli. Così, non sposarsi è una condizione intrinseca al loro stato. Potremmo dire che per definizione frati e suore sono coloro che non si sposano per decisione, in risposta a una chiamata personale. Questa modalità di vita ecclesiale può farsi risalire alla Chiesa apostolica, secondo il pensiero di Paolo nella prima lettera ai Corinti, per cui non sposarsi era conseguenza diretta della venuta imminente del Signore Gesù. Si tratta ancora oggi di un’esistenza segnata particolarmente dal senso escatologico di anticipo del Regno futuro.
Diversa è la situazione dei preti. Per i ministri nella Chiesa siamo di fronte a un processo storico di non facile decifrazione, dove la precomprensione di chi lo studia ha spesso un ruolo decisivo nell’interpretazione dei dati biblici e storici. Sembra chiaro che gli apostoli fossero sposati, come dimostra la guarigione della suocera di Pietro. Del resto, questa era la realtà comune presso gli ebrei al tempo di Gesù: matrimonio e procreazione corrispondevano al comando divino sulla creazione della coppia umana. Nelle lettere apostoliche, tra i requisiti richiesti per essere ministri vi è quello di essere sposati una volta sola. Lungo i secoli, però, e fin dall’inizio compare una situazione più complessa e diversificata, della quale cercherò di fare sintesi in modo semplice. Si afferma e si constata sempre più il fatto di non ammettere il matrimonio una volta ricevuta l’ordinazione: è un sigillo definitivo sulla realtà esistenziale del ministro. Prima di questa, invece, le tradizioni dell’oriente e dell’occidente cattolico divergono. In oriente fino a oggi si ammette l’ordinazione al ministero di uomini sposati, sia al diaconato che al presbiterato. Per l’episcopato si stabilizza la tradizione di scegliere come vescovi coloro hanno scelto di vivere in castità, come i monaci. In occidente, invece, la scelta si sposta verso i non sposati: secondo un autorevole studio storico, dal IV secolo in occidente piano piano l’usanza comune si trasforma in diritto canonico. Fino alla metà del ventesimo secolo, la motivazione condivisa era di una maggiore convenienza della realtà celibataria per l’esercizio del ministero, soprattutto presbiterale. Il Magistero recente, da Pio XII a Paolo VI, ha messo un accento particolare sul valore del celibato per i preti. Ma è soprattutto Giovanni Paolo II che pone la condizione celibataria intrinseca alla figura sacerdotale, perché attraverso l’ordinazione si viene configurati non solo a Cristo capo e pastore, ma anche a Cristo sposo (cf soprattutto Pastores dabo vobis, 29). Occorre riconoscere come quest’affermazione metta in questione il rapporto fra i preti sposati dell’oriente cattolico e quelli celibatari dell’occidente. Se condividono lo stesso ministero, il celibato non può essere valore intrinseco all’ordinazione. Se, invece, si afferma questa relazione stretta, sarebbe logico dedurne che siamo davanti a due modalità di ministero. Mi rendo conto di essere andato oltre quanto richiesto dalla lettrice, aprendo ulteriori domande più che dare risposte.
Oggi si diffondono voci a più livelli sulla questione posta. Dipende anche da una rinnovata comprensione del matrimonio, visto nel suo pieno valore sacramentale, per cui l’amore degli sposi è reso partecipe della carità di Cristo in tutte le sue manifestazioni. Di fronte a questo amore esclusivo e reciproco tra gli sposi sta l’amore di consacrazione alla persona di Gesù, vissuto, per esempio, da suore e frati. Venendo ai preti, al momento dell’attuale riflessione nella Chiesa, possiamo partire dal fatto che il loro celibato sia quanto meno conveniente per l’esercizio del ministero, nella modalità alla quale siamo abituati: la carità pastorale richiede una dedizione tale da poter essere vissuta convenientemente solo nel celibato. Tuttavia, come già detto, per il Magistero recente non si tratta solo di convenienza ma di un legame ancora più profondo, che tocca la persona del ministro nella sua configurazione a Cristo. Molto è stato detto e precisato, ma vi sono ancora spazi di riflessione e soprattutto di risposta alle circostanze della storia. Lo Spirito guida la Chiesa a novità evangeliche delle quali non dobbiamo avere paura. Così è stato nel passato e così sarà nel futuro nel cammino comune verso il Regno.