Il Codice di diritto canonico, al canone 1398, stabilisce che chi procura l’aborto ottenendo l’effetto, incorre in scomunica «latae sententiae». La norma, nel suo complesso, come ha precisato il cardinale Fisichella, dovrà prossimamente essere rivista alla luce della lettera apostolica «Misericordia et misera» di Papa Francesco. Mi sono chiesto però, visto che la spiegazione di tale gravità è dovuta al fatto, ripetuto più volte, che si tratta di «eliminare una vita innocente», perché la Chiesa non è altrettanto severa ad esempio sul fatto che uno uccida un bambino appena nato o di pochi mesi? Non è anch’esso una vita innocente? Gianfranco VanniRisponde padre Maurizio Faggioni, docente di Teologia moraleL’uccisione volontaria e intenzionale di un essere umano, al di fuori, quindi, della difesa propria e di altri a noi affidati, è un atto malvagio che si oppone, nel modo più radicale e drammatico, all’amore per il fratello. La vita dell’essere umano, creato a immagine di Dio, è inviolabile e intangibile e, quanto più essa si presenta fragile, tanto più dobbiamo sentire la responsabilità di tutelarla e di proteggerla. Questo vale in modo speciale per l’essere umano non ancora nato o, comunque, nel periodo iniziale della sua esistenza: sono creature totalmente affidate alle nostre mani. Si tratta di una intuizione morale esigente che accompagna la Chiesa fin dalle origini. La Didachè, antichissimo testo di catechesi e di liturgia, nel descrivere la cosiddetta via della vita così insegna: «Non uccidere il bimbo con l’aborto e non sopprimerlo dopo la nascita» (II, 2). Ripropone il sentire di sempre il Vaticano II che, in Gaudium et spes, afferma autorevolmente: «La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura e l’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti» (GS 51). Se la sensibilità della Chiesa verso le vite dei non nati e degli infanti è da sempre così forte perché – si chiede il nostro Lettore – una disparità di trattamento per chi ha procurato l’aborto rispetto a chi ha commesso un infanticidio? Non sono forse entrambi crimini orribili e non ripugnano entrambi a una coscienza cristiana? In effetti, dal punto di vista morale, si tratta di due peccati parimenti odiosi contro il quinto comandamento e sono tanto più deprecabili in quanto sopprimono vite indifese. Perché allora la Chiesa solo nel caso dell’aborto ha aggiunto, al peso della colpa che tormenta la coscienza, anche la scomunica? La scomunica è una pena inflitta dalla Chiesa a chi ha commesso delitti particolarmente gravi e ha l’effetto di escludere dai beni e dalla vita della comunità cristiana, la comunione dei fedeli appunto. Lo scomunicato è escluso dalla celebrazione dei sacramenti finché non venga sciolto dalla censura che lo lega. Secondo il diritto e la prassi della Chiesa – non scendiamo nel dettaglio canonico – hanno la facoltà di sciogliere dalla scomunica per l’aborto il Vescovo e il Penitenziere della cattedrale e alcuni sacerdoti, come i cappellani degli ospedali o i membri degli Ordini mendicanti, quali i Francescani e i Domenicani, a motivo della loro peculiare missione ecclesiale.Perché, dunque, l’infanticidio non è punito con la stessa censura? Il motivo è del tutto pastorale: l’infanticidio suscita spontaneo orrore perché uccidere un bimbo nato che respira e piange e invoca protezione è psicologicamente più impressionante che non sopprimere una vita non nata che attende di venire alla luce nel silenzio del seno materno. Il diritto alla vita del nato, benché ancora infante, è percepito con più chiarezza del diritto alla vita del non nato. Il fatto che ci sia la scomunica per l’aborto e non per l’infanticidio non dipende, pertanto, da una minore gravità oggettiva dell’infanticidio, ma da una percezione meno evidente della gravità dell’aborto, tanto più che nella mentalità del mondo laicista, in cui anche i fedeli vivono immersi, esso è ritenuto un diritto della donna, il terribile «diritto» di sopprimere la vita del figlio non nato. La scomunica è detta una «pena medicinale» appunto perché ha lo scopo di aiutare il peccatore a prendere coscienza del male compiuto e ad aprirsi a un salutare pentimento. San Giovanni Paolo II, nella preziosa e indimenticabile enciclica Evangelium vitae, ha spiegato che «con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire quindi un’adeguata conversione e penitenza» (EV 62).Papa Francesco ha affermato più volte, con energia e passione, l’avversione della Chiesa per l’aborto, ma ha deciso, per rendere più larga l’offerta della divina misericordia, di estendere a tutti i sacerdoti la facoltà di poter assolvere, senz’altro onere, tutti i penitenti sinceramente pentiti di aver compiuto l’aborto o di aver cooperato ad esso. Dapprima egli ha concesso questa facoltà nell’anno del Giubileo della misericordia e poi, finito il Giubileo, l’ha confermata, nella lettera apostolica Misericordia et misera del 20 novembre 2016, con queste parole: «Perché nessun ostacolo si interponga tra la richiesta di riconciliazione e il perdono di Dio, concedo d’ora innanzi a tutti i sacerdoti, in forza del loro ministero, la facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto. Quanto avevo concesso limitatamente al periodo giubilare viene ora esteso nel tempo, nonostante qualsiasi cosa in contrario. Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente. Con altrettanta forza, tuttavia, posso e devo affermare che non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere quando trova un cuore pentito che chiede di riconciliarsi con il Padre. Ogni sacerdote, pertanto, si faccia guida, sostegno e conforto nell’accompagnare i penitenti in questo cammino di speciale riconciliazione» (Misericordia et misera, 12).