Perché i vescovi indossano paramenti così sontuosi?
A che cosa servono e quale significato hanno quei sontuosi paramenti sacri che indossano i Cardinali, i Vescovi ed anche il Papa, soprattutto nelle cerimonie ufficiali? Danno l’impressione di ostentamento di ricchezza e di autoritarismo. Eppure Gesù stava in mezzo alla gente, come uno di loro, in maniera semplice, indossando sandali e mai presentandosi in abiti ricchi o sfarzosi. Non sarebbe più opportuno che la Chiesa ne seguisse l’esempio?
Gian Gabriele Benedetti
Si parla di «paramenti sacri» indossati nelle «cerimonie ufficiali». Il primo termine è appropriato per gli indumenti prescritti dalle rubriche durante le funzioni liturgiche. La dizione cerimonie ufficiali, invece, sembra alludere in modo più diretto a situazioni di rappresentanza, come manifestazioni civili o assemblee diverse da quelle liturgiche. Si tratta di due aspetti diversi, che è opportuno distinguere per offrire una prima e parziale risposta all’interrogativo posto dal lettore. Prima di tutto, però, conviene osservare come ogni vestito ha un valore simbolico oltre che funzionale, soprattutto nelle occasioni pubbliche o che sono ritenute importanti. In modo particolare, nel mondo semita dove si è sviluppata la tradizione giudeo-cristiana, la veste indica la dignità della persona, il suo ruolo all’interno dell’ambiente sociale.
Quando Dio scaccia Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden procura loro delle vesti perché possano iniziare il nuovo cammino con dignità: «Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì» (Gn 3,21). Quando ha voluto indicare la dimensione estrema del suo amore, Gesù si è spogliato della veste del banchetto e ha indossato il grembiule del servo per lavare i piedi ai suoi discepoli: «Gesù si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita» (Gv 13,4). Così nell’episodio della trasfigurazione, dove si preannuncia la dimensione gloriosa della sua risurrezione, le vesti di Gesù «divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9,3). E la beatitudine finale per coloro che entreranno nella Gerusalemme del cielo è proprio questa: «Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città» (Ap 22,14). L’albero della vita, perduto a causa del peccato d’origine, viene concesso agli uomini attraverso il perdono definitivo di Dio, simboleggiato dalle vesti lavate nel sangue dell’Agnello (cf Ap 7,14). Nel mondo biblico, allora, le vesti non sono un elemento puramente funzionale e la vita della Chiesa non può non tenerne conto.
Il ruolo specifico dei ministri nel culto cristiano chiede che sia messo in evidenza anche attraverso un abito usato appositamente per le azioni liturgiche. L’uso di paramenti liturgici è antichissimo come lo dimostrano le testimonianze cristiane dei primissimi secoli, sia iconografiche che letterarie. Alcune delle prime rappresentazioni del Crocifisso presentano Gesù sulla croce vestito di paramenti sacerdotali cristiani: si esprime così l’offerta di Gesù sulla croce, riletta attraverso l’offerta eucaristica, celebrata dalla Chiesa in memoria di quell’unico sacrificio redentore. La forma delle vesti liturgiche è mutata nel corso dei secoli, subendo gli influssi delle trasformazioni culturali e storiche. In modo ancora più forte le mutazioni sociali hanno influito sulle vesti abitualmente portate dal clero.
Per qualche secolo i ministri della Chiesa non hanno indossato abiti distinti da quelli dalla gente. Nel corso dei secoli si precisarono le prime norme, che, tuttavia, tendevano a proibire alcuni tipi di abiti piuttosto che renderne obbligatorio uno particolare. Dalle indicazioni di concili locali del V secolo, che proibirono gli abiti corti, introdotti dai barbari, troviamo le prime norme universali con il Concilio Lateranense IV del 1215 e il Concilio di Vienne del 1312. Dal Concilio di Trento si fissa l’uso ecclesiastico della talare nera per il clero. L’attuale Codice di Diritto Canonico non entra in merito alla forma dell’abito ecclesiastico, lasciando la decisione alle varie Conferenze Episcopali. Rimane l’obbligo di portare un abito tipico del clero e che sia decoroso: «I chierici portino un abito ecclesiastico decoroso secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali» (can. 284).
Con questi pochi accenni non si è ancora risposto alla domanda del lettore ma la si può inserire nel contesto adeguato. Credo che l’interrogativo posto abbia un senso: anche nelle vesti ecclesiastiche, sia liturgiche che dell’uso ordinario, la Chiesa è chiamata a seguire l’esempio di Gesù e degli apostoli. Forse dalla storia degli ordini religiosi possiamo ricavare qualche indicazione con una certa analogia.
Nel suo nascere ogni ordine religioso si è dato un abito particolare, che non solo mostrasse la consacrazione a Dio, ma ne esprimesse anche la vita comune, attraverso questo simbolo così evidente. La storia insegna che ogni ordine religioso o la sua eventuale riforma hanno scelto un abito povero, nello stile del tempo in cui è nata la comunità, cercando sempre una semplicità evangelica: gli abiti religiosi sono stati via via complicati e ricondotti successivamente a maggiore semplicità. In modo analogo potremmo vedere l’uso degli abiti ecclesiastici per il clero, dai preti delle nostre parrocchie a vescovi e cardinali.
La storia ha portato a mostrare il ruolo dei ministri della Chiesa anche attraverso la forma di abiti diversi da quelli della gente. L’importanza di un abito specifico è sottolineata dal Magistero, non solo nelle azioni liturgiche (dove ha una funzione simbolica rilevante), ma anche nella vita ordinaria.
La Congregazione per il Clero così spiega il significato dell’abito ecclesiastico: «In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero – uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri – sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta, come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico. Il presbitero dev’essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa» (Direttorio per il Ministero e la Vita dei Presbiteri, 31 gennaio 1994, n. 66).
Una tensione verso forme semplici e decorose appartiene alla storia grande della Chiesa. Ogni riforma porta con sé gesti simbolici ed anche una maggiore semplicità nelle vesti del clero sarebbe un segno evidente. In fondo quell’abito bianco che il mondo ha imparato a conoscere attraverso i viaggi apostolici degli ultimi pontefici è diventato un simbolo così pregnante anche per la sua estrema semplicità. La fedeltà al Vangelo non si misura dall’abito esteriore, ma l’abito esteriore può rappresentare un messaggio immediato: quanto meno esprime il desiderio di voler seguire quel Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo (cf Lc 9,58).