Perché i preti non sono tenuti a fare voto di povertà?
Ho imparato, parlando con un sacerdote, che per i preti non è previsto il voto di povertà. Perché? Per me era una cosa scontata, ho sempre pensato che per loro fosse un dovere e che le eccezioni di cui a volte si sente dire fossero dovute a debolezze umane. Un conto sono i beni che una parrocchia può possedere, per usarli a fini pastorali, di culto, di carità; un conto sono le proprietà personali di un sacerdote che secondo me dovrebbero essere limitate all’essenziale per una vita dignitosa.
(Lettera firmata)
Prima di valutare l’opinione del lettore sui preti è bene chiarire la questione.
I preti sono di due tipi. I sacerdoti diocesani o secolari, che fanno capo al un Vescovo e fanno parte del clero diocesano, vivono in genere in una parrocchia di cui sono i parroci. I sacerdoti religiosi che fanno capo a un ordine o a un istituto religioso (per esempio: domenicani, francescani, gesuiti, carmelitani), e rispondono a una regola e a un superiore della stessa istituzione religiosa, e vivono in un convento di cui fanno parte come una famiglia.
Il prete diocesano, nel momento in cui diventa sacerdote fa 3 promesse (si noti: non voti): promessa di celibato; promessa di obbedienza al proprio Vescovo; e promessa di preghiera e santificazione.
Il religioso, al momento di entrare in convento, fa tre voti: di povertà, castità e obbedienza.
La promessa è un impegno personale a seguire quanto detto. Il voto è un impegno che obbliga a un determinato modo di vita. La distinzione è evidente nel caso della povertà. Per un religioso è una rinunzia reale alla proprietà, al punto che nel momento del voto rinuncia a ogni possesso presente e futuro, con testamento. Il prete diocesano non fa nessuna promessa in merito e perciò permane proprietario di ciò che ha e che potrà avere. Il prete ha una limitazione nell’uso dei beni parrocchiali e diocesani che, ovviamente, non sono suoi e di cui deve rendere conto, ma lo stipendio che prende e le proprietà che potrebbe avere per esempio dalla sua famiglia sono beni suoi e li gestisce come meglio crede.
Mentre il voto di povertà rende tutti i sacerdoti religiosi nullatenenti e perciò tutti poveri allo stesso modo, tra i preti diocesani possono esserci quelli ricchi e quelli poveri, e questo da sempre, come allo stesso modo ci sono vescovi ricchi e vescovi poveri. Mi pare che questo non sia un problema, perché il prete diocesano o secolare è un ministro che svolge il suo ufficio nella chiesa e ciò che lo caratterizza è proprio il compito della santificazione del popolo a lui affidato, e questo lo può fare sia da ricco che da povero.
Invece il religioso fa una scelta diversa, una scelta di vita, anzi il sacerdozio in un religioso non è richiesto, ma è un «plus, extra» che si aggiunge all’essere religiosi. Il religioso per prima cosa sceglie di offrire se stesso, la sua vita, la sua esistenza a Dio «sommamente amato» (Decr. Perfectae caritatis), e per fare ciò vive in comunità con altri frati e tramite i tre voti suddetti impegna la sua esistenza nella santificazione propria, insieme a suoi confratelli, secondo la regola dell’Ordine. Si pensi a San Francesco che non era un presbitero (prete), ma era un ottimo religioso, Santa Chiara era religiosa monaca, e non sacerdote. Perciò un religioso è tale perché fa i voti e non perché è sacerdote, poi può diventare anche sacerdote, ma questa è una scelta ulteriore.
Se invece il problema del lettore è di tipo «morale», chiamo così l’efficacia dell’insegnamento, dell’esempio, del convincimento che ogni prete deve infondere nei fedeli a lui affidati, allora il lettore ha ragione: un prete «povero» è un testimone del vangelo e del Cristo, che impersona, migliore e più efficace di un prete «ricco». D’altra parte i fondatori di Ordini religiosi scelsero la povertà perché molto efficace nel mostrare l’autenticità della scelta fatta. Tutti farebbero volentieri i banchieri, perché c’è un guadagno, pochi fanno volentieri i raccoglitori di cartoni, perché non ci si vive. Tuttavia il lettore comprende che anche un prete ricco che usa le sue proprietà a beneficio dei bisognosi ed è accorto amministratore, al punto che molta popolazione ne partecipa con frutto, non mi pare che sia un cattivo testimone perché sa mettere i propri beni e le proprie capacità a servizio di chi ne ha bisogno. Nella storia della Chiesa vi sono esempi di un modo e dell’altro.
Personalmente ritengo che la povertà sia lo stato più efficace di ogni altro per la evangelizzazione, e aggiungerei anche che, oltre tale stato, un buon evangelizzatore dovrebbe fare la scelta o l’opzione per i poveri, che garantisce l’adesione alla povertà sia al prete ricco che a quello povero.
Per esemplificare. Gesù può essere visto da due angolazioni: ciò che ha fatto e come è vissuto. Che cosa ha fatto? Ha predicato la parola, ha fatto miracoli, ha viaggiato, ha fatto del bene. Come è vissuto? Povero, casto, obbediente al Padre, insieme con i suoi discepoli. Il prete imita Gesù in ciò che ha fatto. Il religioso imita Gesù in come è vissuto. Il prete può fare le stesse cose di Gesù anche da ricco; il religioso invece non può non essere povero, perché altrimenti non può imitare Gesù. Comunque un buon sacerdote che abbia le due caratteristiche sembra il testimone migliore.
Athos Turchi