Perché Dio ha dato all’uomo il compito di dare i nomi alle cose?
La domanda sembra banale, ma solleva un problema che percorre la storia del pensiero umano, perché, com’è evidente, la relazione tra il pensiero e la parola è intimissimo, e il nome è la parola per eccellenza.
Il problema, detto del linguaggio, era già vivo ai tempi di Platone, che come buon filosofo lo dovette affrontare e difatto ne dette un’interpretazione (nel dialogo: Il Cratilo) che è rimasta intoccata fino ad oggi. Ai suoi tempi c’erano due teorie: i nomi sono naturali, suggeriti dalle cose stesse, come per esempio «bisbiglio»; i nomi sono convenzionali, dati dall’uomo a caso, «Birillo» per nominare un cane. Platone invece ritenne che il linguaggio è «strumentale»: esso è sorto come strumento per poter comunicare tra gli uomini quanto questi conoscono e quanto esiste.
La parola in altri termini serve per designare, significare una cosa. Ora in quanto «parola» essa è convenzionale, perché serve a esprimere un «concetto», che invece è un’idea o affezione razionale dell’anima (come diceva Aristotele), che negli uomini è uguale per tutti. Basta mettersi d’accordo. Ma una volta d’accordo sul nome, questo diventa necessario a esprimere ciò che significa. In altri termini, nella mente di tutti gli uomini è presente ed è uguale il concetto di «sole», poi che lo si chiami soleil, sun, sol, elios, è questione di intendersi, ma sappiamo che tutte queste parole significano una sola cosa: quell’astro che splende. Così una volta stabilito che «l’astro che splende» si indica con quei nomi, essi diventano necessari ciascuno per il suo linguaggio. La bandiera italiana non è tricolore perché l’Italia è tinta di quei colori, ma è un simbolo che poteva essere anche di un solo colore, ma una volta da tutti riconosciuto come bandiera italiana, il simbolo diventa necessario per indicare lo stato italiano.
La Bibbia non va contro questa teoria del linguaggio. Infatti Dio sollecita l’uomo perché nomini, dia nome agli animali e più in generale alle cose. Quindi l’uomo venendo a conoscenza delle cose, una volta conosciute, dà loro un nome. Cosa vuol dire? Il fatto che nella tradizione biblica si riteneva che il nome dovesse esprimere l’essenza o la natura stessa della cosa designata. Per cui la scelta del nome non doveva essere buttata lì a caso, ma doveva indicare una qualificazione della cosa stessa. Per esempio questa tradizione è presente ancor oggi in molte culture: ricordo che una ragazzetta di Korogocho (Kenia) si chiamava Kathule, «Non-voluta». Tuttavia questo sottolinea ancor più la differenza tra l’uomo-soggetto e le cose-oggetti, ossia che la realtà delle cose di fronte alla soggettività umana è strumentale.
Se l’uomo ha il potere di dare il nome alle cose, significa che esse prendono senso rispetto all’essere umano. Molti filosofi di oggi affermano che il mondo, e quando si dice questa parola si indica la realtà così come la vediamo, è tale non perché lo formano le cose che ci sono, ma perché lo forma l’uomo nella sua mente quando appunto dà nome, senso, determinazione a tutte quelle cose, che senza uomo non avrebbero significato. Si pensi a Marte: ci sono valli, monti, pietre, canaloni… ma se non ci andasse l’uomo a distinguere una valle da un monte, che senso avrebbero tutte quelle cose?
Da qui si capisce la grandezza dell’uomo, che ha il ruolo o il compito, non di creare le cose, ma di significarle. D’altra parte quando si parla di mondo lo si chiama «cosmo-kosmos» termine che vuol dire «ordine». Si noti: kosmos deriva da kens, una parola indoeuropea primitiva, da cui viene «censire, dichiarare, ordinare con autorità». Questa parola ci dice che l’ordine non è lì fuori, ma proviene da un soggetto che ha l’autorità di mettere ordine, ordinare le cose lì fuori, come un colonnello, dando ordini, ordina gli uomini per formare l’esercito. Come si vede anche da altra angolazione la Bibbia non si discosta dalla tradizione culturale.
In conclusione. Pur ammettendo che le cose che ci sono, ci siano e siano come sono, se in mezzo ad esse non interviene una «mente» che, grazie al nome, distingue una cosa dall’altra, le stesse cose non potrebbero esprimere il loro significato. Un libro scritto in una lingua sconosciuta, senz’altro dirà qualcosa, ma per chi? Se nessuno può leggerlo, sarebbe un’accozzaglia, un caos di sgorbi. Ma letto da uno che ne conosce la lingua, ecco che gli «sgorbi» disvelano un significato, un senso. Nominando le cose, è l’uomo che scrive il suo poema cosmico, o come dicevano gli antichi porta il «Caos», che non voleva dire confusione, ma non-senso, a «Kosmos», cioè a salotto ben ordinato. Dio insomma affida all’uomo l’ordine del mondo, come una mamma affida alla figlia di mettere ordine nella sua cameretta, e l’uomo lo fa dando nomi.