L’evasione fiscale è peccato?
Settimo comandamento: «Non rubare». Ho sottratto oggetti o denaro altrui? Ho riparato o restituito, se ero in grado di farlo? Retribuisco con giustizia il lavoro degli altri? Compio i miei doveri sociali (tasse, ecc.)? Ho danneggiato altri nei contratti o relazioni commerciali con inganni, raggiri, corruzioni, bustarelle? Ho riparato al danno causato? Ho lavorato con serietà, guadagnandomi la retribuzione che ricevo? ecc. ecc.
In pratica per avere il perdono di questi peccati il cattolico credente dovrebbe provvedere alla restituzione di quanto si è appropriato. Pensate, quanti piccoli e grandi commercianti, artigiani, che non fanno lo scontrino fiscale, ed altri grandi evasori incalliti che abitudinariamente non pagano le tasse, politici bustarellari e via di seguito, commettono il reato di furto, quindi rientrano nel 7° comandamanto, dove vige l’obbligo di restituire le cose rubate per avere il perdono dopo la confessione.
Ma la domanda che mi pongo è: ma quanti mai al Confessore confesseranno di avere evaso le tasse, o commesso le altre mancanze previste dal 7° comandamento, ed anche se qualcuno lo confessa, che valore ha la sua confessione se non procede al versamento di quanto dovuto? Pensate quanti bei soldi potrebbero rientrare nelle casse dello stato, altro che manovre o manovrine!
Penso che sarebbe una cosa da far conoscere, anche a tantissimi Sacerdoti che forse in confessione non hanno il coraggio di aggiungere alla frase del perdono, «provvedi però a restituire, a pagare, quanto illecitamente ai sottratto». In tale senso sarebbe opportuno non limitarsi a dire che chi evade fa peccato, ma che per avere il perdono occorre restituire, pagare e promettere di non farlo più.
Vittoriano Baccetti
L’ingiusto arricchimento è assolutamente grave se è vero arricchimento, tenuto conto della situazione economica media della società in cui si vive, indipendentemente dal danno recato al derubato. Inoltre, nel caso in cui l’oggetto del furto abbia un valore inferiore a ciò che possa ritenersi arricchimento oggettivo ma che comporti un grave danno arrecato, l’ingiusto arricchimento continuerà ad essere considerato materia grave.
Detto diversamente, la gravità della materia, e del peccato di furto, viene commisurata alla gravità del danno fino a un certo limite in quanto, oltre il limite del vero arricchimento, la materia è sempre grave e si ha sempre peccato mortale, anche se il danno arrecato è lieve. Può quindi capitare che il furto di una somma non molto rilevante a una persona di condizione economica modesta sia una colpa grave, e che sia altrettanto grave il furto di una somma rilevante con il quale però non si causa un grave danno ad una persona molto ricca.
Nel caso di colpa grave (di peccato mortale), il dovere di restituire la cosa rubata e di riparare al danno arrecato è condizione necessaria per ottenere l’assoluzione sacramentale. Qualora, per vari motivi, non fosse possibile restituire al legittimo proprietario, quanto è stato rubato deve essere destinato in beneficenza ai poveri. Unica eccezione al dovere di restituzione è l’impossibilità economica del ladro. L’obbligo comunque rimane e diviene operante appena un miglioramento della condizione economica del ladro lo consenta.
Questa, semplificando e in estrema sintesi, la riflessione morale sul furto che ogni confessore conosce e che ordinariamente applica nel confessionale. Al riguardo non credo sia possibile una statistica che porti ad affermare che «tantissimi sacerdoti forse in confessione non hanno il coraggio di aggiungere alla frase del perdono, provvedi però a restituire». Diversamente sembra evidente, dato il livello di evasione statisticamente accertato, che un buon numero di persone non confessa «di avere evaso le tasse, o commesso le altre mancanze» e, aggiungerei, probabilmente neppure si avvicina al confessionale.
Trattare del furto in tutti i suoi aspetti richiederebbe una riflessione molto lunga e complessa, che richiederebbe uno spazio diverso da quello qui disponibile onde evitare banalizzazioni e generalizzazioni. Un punto però vorrei porre all’attenzione del signor Baccetti e dei lettori. Oggi è urgente recuperare la tensione da parte di tutti verso il bene comune che, se per Aristotele è l’elemento distintivo tra una forma di governo buona e una corrotta, nella tradizione cristiana è il valore costitutivo della vita associata, e quindi riguarda tutti. Infatti già San Tommaso sottolineava che il bene comune è ciò che ciascuno deve perseguire per conseguire il proprio perfezionamento in quanto, essendo la vita associata parte integrante dell’essere dell’uomo, ne deriva che la realizzazione di sé implica la realizzazione dell’altro, di ogni altro, e perciò l’edificazione di un assetto di convivenza in cui vengano assicurate a tutti concrete possibilità di sviluppo umano. Il bene comune ha dunque i connotati di bene di «ciascuno» e di «tutti», ed è definibile solo nel quadro di una corretta integrazione delle esigenze dei singoli con quelle della collettività.
Al riguardo Giovanni Paolo II nel 1987 annotava nella Sollicitudo rei socialis che: «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti», è l’unico atteggiamento che, «presupposto l’aiuto della grazia divina», è capace di vincere «quella brama del profitto e quella sete del potere» ovvero quelle «strutture di peccato» (cf SRS 38) che oltre ad impedire il pieno sviluppo di tutti gli uomini, provocano le «manovre e manovrine» italiane e non poche altre problematiche in tutto il mondo. È dunque urgente oggi cooperare per la realizzazione di strutture di grazia possibili soltanto in forza dell’impegno di tutti «per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a perdersi a favore dell’altro invece di sfruttarlo e a servirlo invece di opprimerlo per il proprio tornaconto» (SRS 38).