L’atto penitenziale durante la Messa potrebbe sostituire la confessione?
All’inizio di ogni celebrazione eucaristica vien proposto un esame di coscienza, con la volontà silenziosa di chiedere il perdono dei peccati, onde partecipare più degnamente e meglio disposti alla celebrazione stessa. Il sacerdote, in questo caso, non può rimettere i peccati, in nome di Dio, a tutti i fedeli presenti, evitando la confessione singola? Confessione, questa, che richiede grosso impegno ai sacerdoti ed un’accurata preparazione, non sempre accertata. Inoltre il confessando non di rado si trova, di fronte al confessore, in una situazione di imbarazzo e di pudore ad accusare i propri peccati, le proprie debolezze, le proprie mancanze, i propri errori. Non verrebbe rispettato ugualmente il Sacramento della Confessione, se fosse comunitario, senza il bisogno di accostarsi al confessionale? Se poi uno avvertisse la necessità di un colloquio approfondito e chiarificatore con il confessore, in quel caso, potrebbe benissimo richiederlo.
Gian Gabriele Benedetti
Se ho ben inteso, il lettore auspica che la celebrazione dell’eucaristia possa essere considerata di per sé una forma di remissione dei peccati. Più esattamente propone di conferire all’atto penitenziale con cui inizia la messa il valore di una vera e propria assoluzione sacramentale generale per tutti coloro che partecipano al rito. Questo, ritiene il lettore, risolverebbe molti problemi: dalla mancanza di tempo dei preti, all’imbarazzo dei penitenti… E nessuno si accosterebbe più in modo indegno alla comunione.
Da queste puntualizzazioni si può prendere dunque atto che la Chiesa riconosce all’eucaristia la prerogativa di rimettere i peccati ma, distinguendo fra peccati lievi e gravi, afferma la necessita di ricorrere, per questi ultimi, al sacramento della penitenza. Sebbene poi sia contemplata la possibilità di una celebrazione comunitaria della penitenza con confessione e assoluzione generale si richiede comunque di confessare individualmente i peccati gravi allorquando sarà possibile. La Chiesa ha dunque considerato ed accolto elementi significativi delle istanze rammentate dal lettore ma non ha ritenuto di dover abbandonare la prassi della confessione.
Anche alla luce di queste puntualizzazioni mi pare dunque di dover rispondere che, nonostante i vantaggi considerati dal lettore, un’abolizione della confessione come via ordinaria per l’assoluzione dei peccati gravi non sia la via da percorrere per affrontare l’attuale crisi del sacramento della penitenza.
Eliminare la necessità della confessione dei peccati gravi per ottenerne il perdono non aiuterebbe il cammino di conversione e rischierebbe, invece, di mascherare alla coscienza del credente la bellezza del perdono di Dio riducendolo ad un evento automatico e, in sostanza, ad una «grazia a buon mercato».
La necessità di chiamare i peccati per nome allena la coscienza ad esercitare il proprio esame e a maturare progressivamente nella capacità di discernere il bene e il male.
Lo stesso imbarazzo che il penitente può sperimentare di fronte alla confessione, e che il lettore giudica una ragione in favore dell’assoluzione generale, mi pare piuttosto un indicatore della serietà dei peccati “seri” che non sarebbe saggio risolvere con un indistinto “colpo di spugna”.
Infine direi che il confronto franco con il ministro della chiesa, possibile nella confessione, è la strada più opportuna per elaborare un percorso penitenziale adeguato a risanare le ferite prodotte dai peccati dentro e fuori di noi.
Sono consapevole che il sacramento in questione presenta oggi molti aspetti problematici, per esempio la difficoltà a qualificare adeguatamente la gravità dei peccati di fronte alle nuove acquisizioni antropologiche, oppure la non adeguatezza di parametri di giudizio che la prassi della confessione ha ereditato a risolvere questioni umane e tendenze sociali nuove. Tuttavia non ritengo che l’abdicare alla sfida di riconoscere e confessare i nostri peccati ci possa davvero rendere cristiani migliori.
Gianni Cioli