Si parla spesso della carenza di sacerdoti e di parroci sovraccarichi di impegni, ma nonostante l’alta qualità della dottrina conciliare sul laicato, la sua traduzione nella pratica è stata finora inadeguata. Ci sono parroci che non apprezzano la collaborazione dei laici e spesso censurano le proposte che provengono dalle associazioni laicali. Ne conosco alcuni che non consultano quasi mai il consiglio pastorale e in qualche parrocchia neppure esiste. Dal punto di vista pastorale sono rigidi e non predisposti al dialogo. Nessuno vuol negare il ruolo di guida del parroco, ma facciamo tutti parte del popolo di Dio.Benedetto XVI anni fa in un messaggio alla federazione internazionale di Azione cattolica scrisse: «È importante che si consolidi un laicato maturo e impegnato capace di dare il proprio specifico contributo alla missione ecclesiale nel rispetto dei ministeri e dei compiti che ciascuno ha nelle vita della Chiesa. I laici non vanno considerati solo dei collaboratori dei sacerdoti, essi infatti hanno un proprio modo specifico e insostituibile: sono persone realmente corresponsabili dell’essere e dell’agire nella Chiesa».Lettera firmataRisponde padre Valerio Mauro, docente di Teologia sacramentariaLa domanda del lettore, nei contenuti come nella richiesta finale, mostra chiaramente un sottofondo di relazioni complicate e tensioni vissute, che non potrà essere risolto se non attraverso un percorso di rinnovata fiducia e apertura del cuore, ben oltre quanto sarà offerto dalla risposta pubblicata su queste pagine. Tuttavia, una chiarificazione dei termini del problema e delle prospettive che si aprono potrà essere di giovamento.Ormai è teologicamente condiviso come il contributo dei laici alla missione e alla vita della Chiesa non debba essere considerato a partire dall’emergenza pastorale di una presenza di ministri sempre più rarefatta. La comprensione sempre più profonda della Rivelazione, attraverso l’esperienza spirituale dei credenti, lo studio degli specialisti, le affermazioni autorevoli del magistero (Dei Verbum 8) ha portato all’evidenza ecclesiale il contributo necessario del santo popolo di Dio per l’annuncio di fede e l’agire pastorale. Questo agire in favore del Regno chiede il riconoscimento della molteplicità dei carismi donati ai credenti, da esercitare attraverso quella che possiamo chiamare «carità ordinata». Il termine, di origine patristica, rinvia all’amore di Dio quale fondamento universale dell’agire nella consapevolezza cristiana, da vivere nella concretezza delle singole situazioni storiche. Da qui l’elaborazione di norme e direttive canoniche perché il cammino delle comunità ecclesiali avvenga nella maggiore comunione possibile. Di fatto, emergono tensioni, facilmente intuibili dalle seguenti coppie di termini: collaborazione e/o corresponsabilità, guida (governance) e/o delega di compiti, consultazione e/o decisione. Si tratta di tensioni applicabili a ogni realtà comunitaria nella quale sono in gioco problemi da risolvere, progetti da approvare ed eseguire, verifiche progressive sulle decisioni prese. Il cammino della Chiesa è inserito nel tempo e non si possono ritenere insignificanti per l’annuncio evangelico le indicazioni che la storia dell’umanità offre continuamente. La necessità del discernimento implica per se stessa il possibile riconoscimento di ulteriori segni dei tempi, oltre quelli individuati nella Pacem in terris di Giovanni XXIII.A mio parere, la tensione verso una maggiore e reale corresponsabilità del popolo di Dio è già risolta in senso positivo sia dal pensiero teologico come da vari interventi magisteriali. Le normative canoniche richiedono nelle singole parrocchie la presenza del consiglio degli affari economici per disposizione del Codice universale (can. 537), ma anche del consiglio pastorale, secondo il giudizio del vescovo (can. 536). Si tratta di luoghi attraverso cui la consultazione sulle relative questioni assume quella forma sinodale alla quale siamo invitati dall’attuale magistero. Forse non siamo abituati a confrontarci con quanto esige prendere sul serio la parola sinodo, ma siamo spinti a farlo in questo tempo di crisi per riscoprire la forma apostolica delle prime comunità cristiane. «Il tempo è superiore allo spazio» (Francesco, Evangelii gaudium, 202): la fatica della mediazione all’interno di una comunità offre una fecondità più evangelica di decisioni immediate e personali.Legato al tema della corresponsabilità vi è quello dell’autorità capace di prendere decisioni per un determinato progetto o per un piano pastorale che coinvolgerà tutti. Il senso della delega per un determinato progetto può implicare i contorni essenziali, ma non la puntuale e precisa esecuzione dei minimi particolari. Inoltre, dalla testimonianza della prima comunità cristiana, appare chiaro come le questioni nella Chiesa debbano essere valutate e decise nel rapporto fra «tutti – alcuni – uno solo». Nel dicembre 2015 l’Associazione teologica italiana ha messo a tema un confronto teologico sul tema dell’autorità e delle forme di potere nella Chiesa. Siamo di fronte alla realtà delicata della tensione fra il desiderio democratico sviluppatosi nell’età contemporanea e la dimensione di governo di una comunità legata al ministero ordinato. Per papa Francesco la trasformazione di consuetudini, orari e linguaggio in una parrocchia diventa occasione di evangelizzazione e spinta missionaria (cf Francesco, Evangelii gaudium 27). Ma chi decide le cose che riguardano tutti? Il discorso di Benedetto XVI citato dal lettore parla del consolidamento di «un laicato maturo e impegnato capace di dare il proprio specifico contributo». Sono parole precise. Invitano a un cammino di formazione a più ampio raggio di quello ricevuto dai ministri ordinati. Ci potranno essere persone formate nelle scienze teologiche o bibliche, ma anche nelle scienze umane o tecniche, senza escludere quella grande parte del «popolo santo di Dio» che si riunisce in chiesa ogni domenica per celebrare l’eucaristia e vivere il Vangelo nello scorrere quotidiano dei giorni. Nella varietà dei carismi, nella comunione dell’unico Spirito la comunità cristiana cammina verso il Regno, sotto la guida dei suoi pastori, chiamati servi dei fratelli nella fede.Nel febbraio dell’anno prossimo la Congregazione dei vescovi ha programmato un Simposio teologico Internazionale dal titolo «Per una teologia fondamentale del sacerdozio». Nella conferenza stampa di presentazione, svoltasi il 12 aprile di quest’anno, la professoressa Michelina Tenace ha messo in evidenza come occorra ripensare il fondamento unico del sacerdozio di Cristo, che lega il sacerdozio ministeriale con il sacerdozio comune dei battezzati. Ogni epoca ne ha espresso una comprensione diversa, elaborando un’ecclesiologia modulata sulle esigenze della testimonianza evangelica nella storia. Per la sua vocazione, i cambiamenti nella Chiesa non possono essere dettati dalle pressioni culturali, ma non si può nemmeno escludere che in quanto spinge verso un cambiamento vi sia una chiamata legittima a liberare la fede da incrostazioni del passato. Così è accaduto nel passato e così accadrà nel futuro. La presenza necessaria e carismatica del ministero ordinato deve coordinarsi con l’unzione dello Spirito sul popolo sacerdotale di Cristo, in una responsabilità reciproca verso l’unica missione di preparazione al Regno che viene.Mi piace concludere con la citazione di un testo la cui articolazione esprime limpidamente quanto ho cercato di comunicare: «Cristo ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero del servizio, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Efesini 4,11-12). La molteplicità di carismi e ministeri è al servizio dell’intero popolo di Dio (fratelli) perché l’umanità intera trovi la sua pienezza escatologica in Cristo, che consegnerà nelle mani del Padre il suo Regno (1Cor 15).