L’aborto «sbagliato» e la difesa della vita
Come un «tragico errore» è stato giudicato dai giornali l’aborto terapeutico non riuscito a Rossano in provincia di Cosenza; i medici non si sono accorti che il bambino era ancora vivo e lo hanno abbandonato per ventidue ore fino all’arrivo del cappellano dell’ospedale, solo allora sono inutilmente intervenuti. Non essere riusciti ad interrompere una «piccola» vita, è stato questo l’errore? Quando l’essere umano è all’interno della madre non ha diritto alla vita, appena viene tirato fuori, anche per sopprimerlo la sua esistenza diventa da rispettare?
Un piccolo movimento, un piccolo cuore che batte, una piccola mano ancora calda ci fanno capire, indipendentemente da ogni principio religioso, cosa viene commesso quando si pratica un’interruzione di gravidanza.
Le madri in difficoltà sono le principali vittime di una società che le rende sempre più sole nella loro sconfitta, abbandonate dal padre dei loro figli, dal mondo del lavoro, dai medici e scienziati, da una legge che le grava di tutte le responsabilità.
Il piccolo bambino di Rossano sopravvissuto per ventidue ore ci aiuta a non seppellire la nostra coscienza.
Lorenzo
La legge italiana, la legge 194, stabilisce che è possibile interrompere una gravidanza nel secondo trimestre quando sussistano motivi gravi direttamente a carico della salute della madre o indirettamente rischiosi per lei come nel caso che le condizioni del nascituro siano tali da compromettere gravemente il suo equilibrio psichico.
Non sfugge a nessuno l’ipocrisia di trasformare un aborto eugenetico, vale a dire l’aborto compiuto perché il feto è malformato e indesiderabile, in un aborto terapeutico, destinato a salvare la vita della madre in situazioni estreme.
Nel caso di Rossano si dice che ci fosse una palatoschisi, difetto dello sviluppo del labbro superiore e del palato che può presentarsi con gravità molto diversa e con possibilità di cura variabili.
Nel caso di aborti tardivi, il Legislatore ha stabilito che «quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso [di pericolo di vita per la madre]e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto» (art. 7).
In Italia, quindi, non si può abortire un feto viabile solo perché è portatore di una patologia e, anzi, la stessa interruzione di gravidanza deve essere comunque fatta salvaguardando la vita del nascituro: questo comporta che, se dà segni di vitalità, egli debba essere rianimato come tutti gli altri neonati. Non entriamo nella questione di quando le manovre rianimatorie possano sconfinare nell’accanimento, ma non possiamo non sottolineare che, con i progressi della medicina, la soglia di viabilità si è molto spostata indietro e questo chiede – come già si espresse il Comitato Nazionale di Bioetica nel 2008 – una revisione della prassi corrente.
Quello che qui interessa è che le cure minimali e, se ragionevoli, le terapie più impegnative devono essere praticate anche sui neonati abortiti perché questo è il loro diritto di esseri umani. La 194, – propriamente parlando – permette alla donna di interrompere la gravidanza, ma non le dà il diritto di vita e di morte sul bambino così che la sua volontà di aborto possa costituire un ostacolo alle cure che i medici ritenessero idonee per lui. Sarà la Società ad assumersi la cura di questa creatura indesiderata.
A parte ogni considerazione morale sugli aborti eugenetici, quello che impressiona nel caso di Rossano è che il nascituro fosse più maturo di quanto non si pensasse o si affermasse ufficialmente (le cartelle sono al vaglio dell’Autorità competente) e alla nascita fosse più vitale di quanto non ci aspettasse. Che non fosse morto doveva essere stato chiaro a qualcuno dello staff medico, visto che non era stato buttato, come al solito, con tutti gli altri rifiuti biologici, ma era stato lasciato lì a morire, a poco a poco, omettendo le cure necessarie.
La disumanità insita nelle pratiche abortive, inutilmente stemperata dall’equilibrismo bizantino delle norme legislative, risalta con tragica chiarezza in queste situazioni. Il caso di Rossano non è certo isolato e rivela il disprezzo per la vita nascente e la ripulsa profonda per ogni menomazione e handicap, nonostante le ipocritissime campagne pubbliche per la valorizzazione e accoglienza dell’handicap. Se la legge è stata violata lo stabilirà l’Autorità competente, ma non ci saranno leggi o sentenze che possano mettere a tacere il grido di ribellione della nostra coscienza di cittadini e di esseri umani.
Il gesto pietoso del cappellano che si recava a pregare per gli aborti, apre un’altra questione, quella della sepoltura da dare a queste vite umane fragili e spezzate. La sorte usuale degli aborti è di essere smaltiti insieme con i rifiuti speciali delle sale operatorie. È l’ultimo insulto alla loro dignità di creature umane. Ovviamente contro la sepoltura si sono levate già fiere proteste da parte degli «illuminati» soloni laici: essi sanno, infatti, che seppellirli significherebbe riconoscere queste creature per quello che sono, esseri umani innocenti.