Ogni volta che mi trovo a leggere il passo degli Atti 4, 32-37 il mio cuore si riscalda per l’esempio di comunità armoniosa e altruistica offerta dai primi discepoli. Al tempo stesso si insinua però anche una domanda: non è questa una forma di quel «comunismo» che secoli dopo riemergerà proponendo una dottrina esattamente opposta, che avverserà – e avversa – il cristianesimo. Le chiedo se questa lettura è possibile. Ringrazio e cordialmente saluto.Carlo GnolfiRisponde don Leonardo Salutati docente di Teologia moraleIn realtà è proprio sbagliato pensare alla comunità cristiana descritta dagli Atti degli Apostoli come una «forma di comunismo» per due semplici motivi: 1) all’epoca non esiste ancora il concetto di proprietà privata – che nasce solo nel 16° secolo così come lo conosciamo oggi – combattuto dal comunismo e nessuno pensa alla sua abolizione; 2) alla Bibbia, alla prima comunità cristiana e successivamente alla riflessione dei Padri della Chiesa, non interessa la proprietà come tale ma, piuttosto, il modo di utilizzare i beni a disposizione.Non dobbiamo ignorare che Gesù aveva amici e seguaci anche tra ricchi. Per esempio Giuseppe di Arimatea discepolo di Gesù (Mt 27,57); Zaccheo che rimane ricco anche dopo aver restituito un’enorme quantità dei suoi beni (Lc 19,1-10); Lazzaro era indubbiamente ricco se alla sua morte accorre tutta la «Gerusalemme bene» (Gv 12,17-19.45); le donne di cui parla At 17,12 erano ricche; Filemone, destinatario di una lettera da parte di S. Paolo, era ricco per il solo fatto di avere schiavi; in 1Tm 6,17 viene illustrato come essere ricchi buoni.La preoccupazione espressa dalla Scrittura nell’Antico e nel Nuovo testamento è il modo con cui usiamo la poca o tanta ricchezza a nostra disposizione e, soprattutto, che questa prenda il posto di Dio nella vita del credente: «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13). Al riguardo il Magistero sociale della Chiesa è sempre stato esplicito ricordando che: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità. Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli (…) L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» (GS 69). Infatti «Ogni proprietà privata ha per sua natura anche un carattere sociale, che si fonda sulla comune destinazione dei beni. Se si trascura questo carattere sociale, la proprietà può diventare in molti modi occasione di cupidigia e di gravi disordini, così da offrire facile pretesto a quelli che contestano il diritto stesso di proprietà».Il fatto poi che tra «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti (…) nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (At 4,32), è espressione concreta della decisione di affidarsi a Dio piuttosto che a sicurezze umane, in un modo che non riesce al giovane che interpella Gesù su cosa fare per avere la vita eterna e che «se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze» (Mt 16,22).Per il credente infatti l’unica vera ricchezza è Dio, è Lui il tesoro nascosto nel campo, è Lui la perla di grande valore per i quali si vende tutti gli averi (Mt 13,44-45). Il cristiano non desidera né avere di più, né tenersi stretto quello che si trova ad avere perché ogni cosa umanamente desiderabile da possedere non è ricchezza a paragone dell’incommensurabile ricchezza della comunione con il Signore Gesù, che possiamo incontrare in «ogni fratello più piccolo» a cui possiamo fare del bene (Mt 25,31-46).