La teoria del limbo è ancora valida o è stata superata dalla teologia?
La teoria del limbo come luogo a cui sono destinate le anime delle persone non battezzate è ancora valida? O è stata superata dalla teologia?
Carla Passi
Limbo significa: lembo, orlo, bordo, ciglio. E s’intende il «luogo» nel quale stanno coloro che sono in equilibrio tra il cadere nell’inferno o il cadere nel paradiso, a seconda del giudizio di Dio. Gli abitanti del limbo sono le anime di quelli che, non avendo avuto il battesimo, non sappiamo dove sistemarli, ci stanno coloro cioè che, non avendo acquisito i meriti di Cristo col battesimo, ve li parcheggiamo in attesa dell’insindacabile giudizio divino, e per questo sono sempre sull’orlo (limbo) di cadere o di qua o di là. Nel limbo Dio non si vede, perciò non c’è felicità piena e infinita, i bambini non avendo colpe concrete stanno tra il gioioso e il tranquillo, i non battezzati buoni sono in uno stato di pace e serenità, i non battezzati cattivi ci stanno male, ma questi potrebbero essere gettati nell’inferno, perché oltre a non avere il battesimo sono anche pieni di colpe volontarie.
Riassumo qui le teorie che nei secoli i teologi, il clero tutto, i semplici fedeli hanno più o meno pensato. Come la lettrice comprende gli uomini sono sempre stati «giustizialisti» e, in ragione dei meriti o demeriti, ciascuno riceve quello di cui è responsabile, da qui, oltre ai tre «luoghi» indicati dalla Chiesa per i cristiani, inferno, purgatorio e paradiso, era giusto prendere in considerazione anche quella grandissima fetta di umanità non-cristiana: e questi dove si mettono? Così è nata l’idea di un limbo che neppure è uguale per tutti come detto.
Non si può non essere d’accordo con Benedetto XVI che il 20 aprile 2007 approvava un documento della «Commissione teologica internazionale», nel quale si afferma che il tradizionale concetto di limbo riflette una «visione eccessivamente restrittiva della salvezza» e di conseguenza se ne può fare a meno.
In effetti il limbo riflette il nostro modo di giudicare, è nella logica della salvezza pensata dagli uomini, ma difficilmente applicabile a Dio.
Daccapo, chiediamoci che cosa sono il paradiso, l’inferno e il purgatorio? Non possono essere «luoghi», sarebbe ridicolo che nell’aldilà ci fossero tre settori divisi da muri dove stanno le diverse anime a subire quanto si meritano. Prima di tutto le anime non hanno ancora il corpo e quindi non possono essere vessate e torturate, secondariamente duplicare il mondo di qui in un aldilà è banale e deviante.
Cosa sono allora l’inferno, il purgatorio e il paradiso se non sono «luoghi»? È evidente che li dobbiamo intendere come uno status dell’anima che alla morte entra nel diretto rapporto con Dio, rapporto che è umana brama e ardente desiderio di Dio stesso. Ora, la brama di Dio delle anime dei buoni e dei santi è subito appagata ed entrano nella gioia del loro Signore: paradiso. Le anime ancora imperfette ad incontrare il Signore vengono purificate proprio dal gran desiderio di Dio, Dio è «sentito» ma non visto, e in questa attesa il desiderio immenso di comunione con Dio purifica, come un crogiuolo, l’anima da tutte le scorie della materialità, del peccato e della vita, finché liberata da ogni attaccamento terreno è pronta ad entrare nella piena visione di Dio: purgatorio. L’inferno sono le anime che bramando Dio veentissimamente, come le altre anime, sanno che non potranno mai vederlo e qui la disperazione atroce e feroce che le tiene nelle fiamme ardenti della loro stessa anima, straziata dal sapere di non poter vedere mai l’oggetto del loro desiderio, che non svanisce: inferno.
Non c’è bisogno dunque di «luoghi» per parlare dell’aldilà, ma di «stati» in cui si trova l’anima, e lo stesso inferno non è dato dalle torture dei diavoli, che sarebbero acqua fresca nei confronti della disperazione eterna in cui si sente un’anima. L’aldilà come si capisce è contrassegnato da due cose: da Dio, che è il fine e il desiderio ardente e veementissimo di ogni anima, e dall’anima bramosa di Dio. La soddisfazione di tale desiderio determina lo stato dell’anima, e così si può parlare di questi tre gradi di relazione. Il demonio, per esempio, è colui che ha rinnegato Dio e per l’eternità è gettato nella disperazione e reagisce a Dio coll’odio più profondo, questo odio lo rende demonio e lo tiene sempre nell’«inferno» che non è un luogo, ma è il cuore e lo spirito stesso del diavolo.
La lettrice immagini un ragazzo innamoratissimo: è nel paradiso quando può stare coll’amata; è nel purgatorio quando è in attesa di vederla; è nell’inferno quando sa che non la potrà più vedere. Questi «stati» non hanno bisogno di «luoghi» ma l’innamorato se li porta dietro ovunque vada, così nell’aldilà non ci sono luoghi, ma anime che vivono la comunione o la separazione da Dio.
E il limbo? Penso che lo si possa lasciare, perché a questo punto non sappiamo più dove piazzarlo. Ogni essere umano che muore si trova in rapporto diretto con Dio, qui le nostre norme più o meno giustizialiste vengono meno, perché ogni anima per Dio, che è il suo creatore, è unica e la tratta non secondo le leggi umane, ma secondo l’amore che per lei ha avuto, che per lei è morto, che per lei è stato custode nella sua vita. E questa relazione unica, assoluta, singolarissima che ogni anima avrà col Padre e che la sgancia da ogni nostro modo di pensare, a me piace immensamente, perché nessuno di noi può giudicare un altro e tanto meno col metro delle nostre leggi, lì invece Dio, col metro del suo Amore divino, l’accoglierà nel suo abbraccio insindacabile e giustissimo, e tale abbraccio è lo stesso giudizio di Dio.
Athos Turchi