La preghiera ad alta voce è più efficace di quella mentale?
Il «Manuale delle indulgenze: norme e concessioni» (Libreria Editrice Vaticana) contiene l’ancora vigente decreto della Penitenzieria Apostolica emesso il 16 luglio 1999 (IV edizione dell’Enchiridion indulgentiarum). Nella parte «Concessioni» al n. 29 «Per i defunti» al paragrafo 1 si afferma fra l’altro: «Si concede l’indulgenza plenaria, applicabile soltanto alle anime del Purgatorio, al fedele che nei singoli giorni, dal 1° all’8 novembre, devotamente visita il cimitero e prega, anche soltanto mentalmente, per i defunti». Sono sempre stato convinto che la validità delle preghiera personale dipenda unicamente dalla concentrazione del fedele, e non dal fatto che la recitazione sia orale o mentale, mentre nel paragrafo 1 sopra citato la validità della preghiera mentale sembra una particolare concessione in rapporto all’indulgenza plenaria che ne consegue, inquantoché, diversamente, tale precisazione sarebbe stata inutile. È così, oppure c’è una differenza di valore e di efficacia fra la preghiera orale e quella mentale? E che valore avrebbero, di conseguenza, le preghiere recitate mentalmente camminando, o guidando l’auto, o nel silenzio di un qualsiasi ambiente?
Franco Contè
Forse non è opportuno mettere in concorrenza la preghiera orale e quella mentale. Sono due espressioni complementari della nostra risposta a Dio che ci chiama al dialogo. La preghiera orale diventa pienamente autentica quando coinvolge la mente e il cuore e quindi comporta sempre e comunque una imprescindibile dimensione mentale. Tuttavia il valore della preghiera fatta non solo con la mente ma anche con la voce è sicuramente quello di premetterci di dialogare con Dio anche attraverso il coinvolgimento della nostra corporeità, ovvero la nostra sensibilità, coinvolgimento che dovrebbe in linea di principio – salvo difficoltà soggettive – favorire e non certo ostacolare la concentrazione e la partecipazione della mente.
Insomma la preghiera orale dovrebbe essere un atto della mente e del corpo insieme, una occasione per lodare Dio con tutto il nostro essere. Il coinvolgimento del corpo diventa ancora più pieno quando alla preghiera vocale vengono associati gesti tipici della preghiera (che tuttavia in taluni casi possono essere associati anche alla preghiera mentale) come lo stare in piedi o in ginocchio, congiungere la mani o allargare le braccia, inchinarsi durante la dossologia. Collegato a tutto questo si può riconoscere un altro vantaggio non piccolo della preghiera orale: quello di permettere a più persone di pregare insieme favorendo, attraverso la fusione delle voci, la fusione e la comunione dei cuori. Questo avviene in primo luogo nella preghiera liturgica ma può compiersi anche attraverso gli esercizi di pietà che la tradizione ci ha consegnato, come il rosario, la via crucis ecc., tutte preghiere che si possono fare da soli soltanto con la mente, ma che, se recitati comunitariamente, ad alta voce, possono divenire momenti di aggregazione e di comunione per progredire insieme nel cammino della fede. Un valore aggiunto, in questo orizzonte, va poi riconosciuto nella preghiera espressa attraverso il canto.
Vi sono senza dubbio forme di preghiera che sono necessariamente solo mentali come la meditazione, in particolare di fronte alla parola (nel silenzio dopo l’ascolto), la contemplazione, l’adorazione silenziosa davanti all’eucaristia (che si può fare come atto comunitario ma che necessita comunque del silenzio).
In conclusione, non si devono opporre le due forme di preghiera, si deve riconoscere un valore imprescindibile al coinvolgimento della mente e del cuore in ogni preghiera, ma non si deve comunque sottovalutare l’importanza dell’espressione vocale soprattutto per le formule che la tradizione ci ha consegnato.
Una parola autorevole sul significato e sul valore preghiera vocale la offre il Catechismo della Chiesa Cattolica ai numeri 2700-2704 che vale la pena di riportare per esteso: «Con la sua Parola Dio parla all’uomo. E la nostra preghiera prende corpo mediante parole, mentali o vocali. Ma la cosa più importante è la presenza del cuore a colui al quale parliamo nella preghiera. “Che la nostra preghiera sia ascoltata dipende non dalla quantità delle parole, ma dal fervore delle nostre anime” (San Giovanni Crisostomo, Eclogae ex diversis homiliis 2: PG 63,583A).
La preghiera vocale è una componente indispensabile della vita cristiana. Ai discepoli, attratti dalla preghiera silenziosa del loro Maestro, questi insegna una preghiera vocale: il “Padre nostro”. Gesù non ha pregato soltanto con le preghiere liturgiche della sinagoga; i Vangeli ce lo presentano mentre esprime ad alta voce la sua preghiera personale, dalla esultante benedizione del Padre (Mt 11,25-26 ), fino all’angoscia del Getsemani (Mc 14,36).
Il bisogno di associare i sensi alla preghiera interiore risponde ad un’esigenza della natura umana. Siamo corpo e spirito, e quindi avvertiamo il bisogno di tradurre esteriormente i nostri sentimenti. Dobbiamo pregare con tutto il nostro essere per dare alla nostra supplica la maggiore forza possibile.
Questo bisogno risponde anche ad una esigenza divina. Dio cerca adoratori in Spirito e verità, e, conseguentemente, la preghiera che sale viva dalle profondità dell’anima. Vuole anche l’espressione esteriore che associa il corpo alla preghiera interiore, affinché la preghiera gli renda l’omaggio perfetto di tutto ciò a cui egli ha diritto.
Essendo esteriore e così pienamente umana, la preghiera vocale è per eccellenza la preghiera delle folle. Ma anche la più interiore delle preghiere non potrebbe fare a meno della preghiera vocale. La preghiera diventa interiore nella misura in cui prendiamo coscienza di colui “al quale parliamo” (Santa Teresa di Gesù, Cammino di perfezione, 26). Allora la preghiera vocale diventa una prima forma della preghiera contemplativa».
Gianni Cioli