La crisi economica secondo la dottrina sociale
Ormai tutti i giornali annunciano la crisi economica, il calo dei consumi, il crollo del «potere d’acquisto» dei salari dovuto all’aumento dei prezzi. Colpa del petrolio, colpa dei tassi di interesse sui mutui bancari. Se ne sentono dire tante. Da parte della Chiesa però c’è anche un richiamo alla «sobrietà», a nuovi stili di vita, lontani dal consumismo. Questa situazione economica non potrebbe per certi versi servire proprio a questo, ad abituarci a evitare gli sprechi che (come mi insegnava mia nonna) offendono chi è meno fortunato di noi? Sarebbe il primo passo, penso, per equilibrare le condizioni di vita tra i paesi occidentali e i paesi poveri. Come cittadino italiano, ovviamente sono preoccupato per me e per la mia famiglia. Come cristiano però penso che forse possiamo cogliere da questa situazione mondiale anche degli stimoli in positivo.
Luca Fratini
Le crisi finanziarie non sono accidenti inspiegabili, né infrequenti. La storia economica è una storia di crisi di mercato che inducono a creare o a riformare le istituzioni pubbliche sia per gestire le conseguenze negative delle crisi in corso, sia per prevenirne di nuove, purtroppo con scarso successo!
Dopo una lunga fase di «idolatria del mercato» di cui si è decantata l’efficienza, la flessibilità, la capacità innovativa, ora tutti invocano l’intervento dell’autorità pubblica e un nuovo sistema di regole (specie negli Stati Uniti). Tuttavia l’esperienza insegna che le regole sono presto aggirate dagli operatori sempre intenti a raggiungere quegli obiettivi di crescita esasperata e di potere ad ogni costo che continuano a provocare crisi drammatiche.
Sarebbe certamente possibile una crescita senza crisi se imparassimo da chi è esperto di umanità. In questo, la Dottrina sociale della Chiesa è una risorsa preziosa: non perché contenga già le risposte, ma perché aiuta a porre le domande rilevanti e a collocarle realisticamente. Come uscire da questa crisi finanziaria? Come evitare le prossime? Quali istituzioni economiche e finanziarie giuste è possibile edificare?
Come ogni realtà umana, l’economia è profondamente ambivalente e richiede lo sforzo di essere adeguatamente compresa. Chi forma i giovani a diventare esperti di economia e di finanza, dovrebbe insegnare loro non solo le tecniche più raffinate, ma anche ad interrogarsi sulle parole radicali: dignità della persona umana, bene comune, sussidiarietà, solidarietà; come pure: speranza, prudenza, coraggio, che sono alla base dell’economia e della finanza etica, capace di realizzare un ponte solido fra il presente e il futuro.
Regole e istituzioni giuste infatti non possono emergere senza un consenso morale sui valori umani fondamentali. In tal senso è ancora oggi quanto mai attuale l’insegnamento di Paolo VI che invita alla promozione di un «umanesimo plenario», cioè «alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum Progressio, 14) che lo illumini nella comprensione di se stesso e del senso del proprio cammino nella storia. Lo sviluppo non può infatti ridursi a semplice crescita economica: esso deve comprendere la dimensione morale e spirituale; un autentico umanesimo plenario non può non essere solidale e la solidarietà è una delle espressioni più alte dello spirito umano, appartiene ai suoi doveri naturali e vale per le persone e per i popoli (Gaudium et spes, 86). L’uomo, infatti, quando persegue il solo benessere materiale restando chiuso nel proprio io, si preclude da se stesso la via verso la piena realizzazione e l’autentica felicità (Benedetto XVI, 10 aprile 2008), provocando quei disordini di ogni tipo che sono attualmente sotto i nostri occhi.
Sarebbe senza dubbio estremamente proficuo allora rileggere l’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI di cui è stato celebrato il quarantennale lo scorso anno (purtroppo senza troppo interesse a Firenze), che offre le dimensioni dell’«umanesimo plenario», che esige «molta generosità, numerosi sacrifici e uno sforzo incessante» e per questo con tutta onestà invita ciascuno ad esaminare la sua coscienza: «che ha una voce nuova per la nostra epoca. È egli pronto a sostenere col suo denaro le opere e le missioni organizzate in favore dei più poveri? a sopportare maggiori imposizioni affinché i poteri pubblici siano messi in grado di intensificare il loro sforzo per lo sviluppo? a pagare più cari i prodotti importati, onde permettere una più giusta remunerazione per il produttore? a lasciare, ove fosse necessario, il proprio paese, se è giovane, per aiutare questa crescita delle giovani nazioni?» (Populorum Progressio, 47).
Proposta impegnativa senz’altro ma ineludibile se si vuole che «venga finalmente il giorno in cui le relazioni internazionali portino il segno del rispetto vicendevole e dell’amicizia, dell’interdipendenza nella collaborazione, e della promozione comune sotto la responsabilità di ciascuno» (Populorum Progressio, 65).