La Chiesa e i divorziati, tra dottrina e pastorale
Vorrei avere alcuni chiarimenti sul problema del divorzio. Se non mi sbaglio, la Chiesa non ammette il divorzio come invece la legislazione civile; in caso di rottura di fatto del matrimonio, mi sembra che sia ammesso il fatto che i coniugi vivano separati, ma, per rispettare la dottrina della Chiesa, comunque legati dai medesimi vincoli sanciti dal sacramento e dalla legislazione civile (fedeltà, assistenza reciproca ecc.).
Mi domando però: non si fa alcuna distinzione riguardo a chi ha voluto e chi ha solo subito tale situazione? Mi spiego meglio alludendo alla mia attuale infelice situazione: mio marito e io ci siamo sposati religiosamente per comune adesione agli ideali cristiani; l’ho aiutato a superare una grave malattia, l’ho sostenuto nel riprendere e completare, dopo lunghi anni, gli studi universitari, abbiamo affrontato insieme il grande dolore della nascita di un figlio non sano e la fatica quotidiana di una vita difficile con problemi economici e sul lavoro; è nato poi un altro bambino. Ora lui, contro il mio volere e nonostante tutti i miei sforzi, ha abbandonato la famiglia per andare a vivere altrove. È giusto, considerando questo suo comportamento, che non ci sia nessuna differenza fra i nostri diversi comportamenti, ai fini della validità religiosa del vincolo matrimoniale? Esistono associazioni nel mondo cattolico che raccolgano persone in situazione analoga alla mia?
Lettera firmata
Colgo in questo scritto un particolare di grande rilievo che riguarda la volontà con cui entrambi i coniugi si sono accostati alla celebrazione delle nozze assumendo con piena consapevolezza i doveri del matrimonio inteso come sacramento, insieme al loro significato intrinseco senza fermarsi solo all’aspetto esteriore come obblighi da osservare.
Mi sembra che sia ancor più significativo e toccante il perdurare nel tempo di questi ideali legati al matrimonio e alla famiglia che sono stati messi alla base del progetto che ha animato i loro anni giovanili, condivisi fin dall’inizio come coppia.
Il radicamento per molti anni di questi valori ha intessuto la loro storia comune fino ad agire da scudo di fronte al dolore e ai numerosi sacrifici, e di anno in anno ha rafforzato il loro legame a dispetto di queste sfide che fin dall’inizio avrebbero potuto sortire un effetto devastante sulla loro unione.
In questo percorso di alleanza e solidarietà il marito alla fine ha ceduto e ha deciso di proseguire il suo cammino imboccando un’altra strada, ma non è dato di sapere con precisione se da solo o iniziando una nuova storia affettiva. Difficile comprendere le ragioni di tale scelta fatta molto tardivamente, ma facile è dedurre che proprio per la comune storia a lungo condivisa, egli avesse ricercato fin dall’inizio lo stesso progetto coniugale «nella buona e nella cattiva sorte», cioè «per comune adesione agli ideali cristiani», tanto per citare le stesse parole della lettrice.
Con tutto ciò, intendo ora spostare l’attenzione sulla granitica convinzione della moglie che, in modo ininterrotto, si è adoprata per salvaguardare l’unione coniugale anche quando il matrimonio è stato messo ulteriormente alla prova per la decisone del marito di abbandonarla. È questo che fa la differenza tra l’una e l’altro, la perseveranza estrema della moglie, che ai tempi di oggi si direbbe eroica, di fronte a un matrimonio celebrato da entrambi nella fede, ma che per lei ha significato anche la volontà di continuare a salvarlo fino in fondo cercando di dissuadere il marito quando si è mostrato intenzionato ad abbandonare la famiglia.
La domanda che la lettrice ci rivolge, se «non ci sia nessuna differenza fra i nostri diversi comportamenti, ai fini della validità religiosa del vincolo matrimoniale», sembra alludere alla possibilità di ricercare nell’abbandono messo in atto dal marito un argomento idoneo per conseguire la dichiarazione di nullità del matrimonio. Dico «forse», perché il quesito della lettrice sembra mostrare interesse anche per l’istituto della separazione civile o canonica. La lettrice con la sua domanda potrebbe anche volerci chiedere se, per la sua retta condotta coniugale fin dalla celebrazione delle nozze, sia da reputarsi valido questo matrimonio indipendentemente dal comportamento complessivo del marito, forse oggi interessato al divorzio o a una causa di nullità.
Pertanto, sono del tutto insufficienti gli elementi che ci vengono presentati e neppure in questa sede potrebbe esserci lo spazio sufficiente per verificare in concreto la «validità religiosa del vincolo matrimoniale», come ci viene chiesto. È pur chiaro che le circostanze hanno qualche peso perché, dopo un matrimonio celebrato con reciproca convinzione – come viene affermato: «mio marito e io ci siamo sposati religiosamente per comune adesione agli ideali cristiani» – ha fatto seguito una impegnativa convivenza coniugale sostenuta da questa «comune partecipazione agli ideali cristiani» su cui si fonda il matrimonio e neppure sembra che il marito abbia ritrattato per molti anni i felici presupposti su cui avevano fondato insieme il comune progetto di vita.
Forse la moglie oggi potrebbe ipotizzare alla luce degli ultimi accadimenti messi in atto dal marito che per tutto il tempo della vita coniugale questi abbia agito con una perfetta opera di dissimulazione avendo forse voluto fin dall’inizio strumentalizzare questo matrimonio per supplire a un suo personale stato di necessità. Siamo nel campo della pura ipotesi. Credo, comunque, che in questo caso almeno qualche lieve sospetto nel tempo alla moglie non sarebbe potuto sfuggire dopo molti anni vissuti con lui.
Per quanto riguarda, invece, l’istituto giuridico della «separazione» dei coniugi (questo termine non deve essere confuso con «divorzio»), anche nei casi e con le modalità previste dal Codice di Diritto Canonico, non comporta e non deve essere inteso come scioglimento del vincolo. È evidente, quindi, che gli elementi e le proprietà essenziali del matrimonio restano presenti e operativi, ad eccezione di quanto è connesso con il venir meno dell’obbligo della comune convivenza coniugale.
Il comportamento sleale o, forse, anche infedele che oggi questo marito ha posto in essere, non può vanificare tutto il significato religioso e giuridico che dà sostanza al matrimonio-sacramento così come lui stesso lo aveva voluto e condiviso con la moglie fin dalla celebrazione. A fronte della domanda posta dalla lettrice: «è giusto, considerando questo suo comportamento, che non ci sia nessuna differenza fra i nostri diversi comportamenti, ai fini della validità religiosa del vincolo matrimoniale?», il comportamento sbagliato di un coniuge nel corso della vita coniugale, pur rompendo gli equilibri coniugali e familiari, non può modificare gli elementi strutturali ed essenziali del valido matrimonio così come è stato istituito dal Creatore «ed elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento» (can. 1056). Quindi, in modo particolare, in un matrimonio valido o presunto tale nonostante la separazione o il divorzio ottenuto in sede civile, da parte di ciascun coniuge indipendentemente dal comportamento dell’altro, rimane intramontabile prima di tutto l’obbligo dell’indissolubilità del vincolo, della fedeltà e di provvedere all’educazione e a tutte le necessità dei figli.
Il vescovo diocesano o il giudice ecclesiastico sono competenti a definire la separazione personale dei coniugi battezzati (can. 1692 §1). Il vescovo diocesano può concedere di adire il tribunale civile, nei luoghi in cui la decisione ecclesiastica sulla separazione non ottiene effetti civili o quando si prevede una sentenza civile non contraria al diritto divino (can. 1692 §2). Vi è da aggiungere, però, che la Chiesa raccomanda sempre di ricostituire, se è possibile, la convivenza coniugale incoraggiando a essere disponibili al perdono. Anche il giudice ecclesiastico, quando intravede la speranza di buon esito, è tenuto a esperire con l’uso di mezzi pastorali il tentativo di riconciliazione perché sia ristabilita la convivenza coniugale (can. 1695). Naturalmente, tutto questo è possibile se l’interesse e la disponibilità sono bilaterali.
Il senso di questa raccomandazione alla ricomposizione dell’unità familiare induce a considerare che un matrimonio, quantunque ferito gravemente, rimane una realtà sempre viva che attende di essere risanata nella verità e nella giustizia con lo sforzo dei coniugi e il sostegno della comunità ecclesiale. Sarebbe davvero pernicioso se si affermasse come mentalità che ogni fallimento coniugale possa essere risolto con qualche sforzo riconducendolo a nullità matrimoniale, anche con le migliori intenzioni pastorali.
Questa sintetica questione posta dalla lettrice, ma ricca di contenuti, mi dà anche l’occasione per richiamare l’attenzione sull’appello che Benedetto XVI, incontrando le famiglie nello scorso mese di giugno a Milano, ha indirizzato a quanti si trovano in situazioni considerate «irregolari» dal punto di vista coniugale. La stampa ha presentato questo messaggio come «apertura» del Papa rispetto alla posizione del Magistero fino a oggi. In realtà, il Papa ha richiamato con le sue parole, quasi alla lettera l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Familiaris consortio del 22 novembre 1981 (per la quale rimando ai diversi interventi da me fatti su questa Rubrica con riferimento alle situazioni cosiddette «irregolari»), incoraggiando le persone divorziate, soprattutto quando ormai la loro situazione è irreversibile, a non considerarsi fuori dalla Chiesa: «Ai divorziati risposati dobbiamo dire che la Chiesa li ama, devono vederlo e sentire che realmente facciamo il possibile per aiutarli – ha detto Benedetto XVI-. Non sono fuori della Chiesa e anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia, vivono pienamente nella Chiesa [ ]. Il contatto con un sacerdote per loro può essere ugualmente importante, poi seguano la liturgia eucaristica vera e partecipata: se entrano in comunione possono essere spiritualmente uniti a Cristo».
Dal punto di vista dottrinale, quindi, non è stata introdotta alcuna modifica né nuova «apertura» nel discorso del Pontefice riguardo alla tradizionale linea cattolica sull’indissolubilità del vincolo. A livello pastorale, invece, il discorso di Benedetto XVI deve essere visto come un’apertura per il modo e la forma con cui si è rivolto a quanti vivono con sofferenza una situazione irregolare. Il contatto diretto con i destinatari e l’incoraggiamento loro rivolto, passando dalla lettera scritta, consegnata al documento, alla viva voce del Papa che entra direttamente nelle loro orecchie e nel loro cuore, è senz’altro un’apertura nel modo di far sentire la sua partecipazione e di tutta la Chiesa. Infine, nelle parole che il Papa indirizza a coloro che vivono e soffrono per queste situazioni c’è anche un indiretto messaggio a tutta la comunità ecclesiale ad amare queste persone come parte viva del Corpo della Chiesa e ad adoprarsi perché queste si sentano veramente accolte, nonostante i limiti di queste unioni che il Papa non ha tralasciato di indicare con chiarezza.
In conclusione, in linea generale un matrimonio celebrato validamente per la presenza di tutti i requisiti che la Chiesa prevede in entrambi i coniugi non può mai essere dichiarato nullo, neppure se anche uno solo di essi venisse meno agli obblighi nel corso della vita coniugale. Fallimento del matrimonio e nullità del matrimonio non costituiscono di per sé un’equazione. La nullità di un matrimonio viene dimostrata processualmente valutando anche le circostanze che hanno caratterizzato il comportamento coniugale di uno dei due o di entrambi, ma la prova della nullità deve essere sempre ricondotta al momento dello scambio del consenso, almeno in uno di loro. È bene sottolineare che il consenso per sua natura è bilaterale e che per questo è necessario «ai fini della validità del matrimonio» che in entrambi i coniugi ci siano i requisiti previsti dalla Chiesa nell’atto della celebrazione delle nozze.
Sull’ultima domanda se esistono associazioni cattoliche che raccolgono situazioni analoghe a quelle della lettrice ritengo che il punto di riferimento debba essere sempre il parroco o le organizzazioni diocesane.