In caso di suicidio può essere celebrato il funerale in Chiesa?
So che la Chiesa non ammette il suicidio e che in passato ai suicidi veniva negato anche il funerale. Oggi però credo che in alcuni casi venga concesso. Per chi fa una scelta del genere, di porre fine alla propria vita, c’è la speranza che Dio ne abbia Misericordia?Lettera firmata
Risponde don Gianni Cioli, docente di Teologia morale
Il nostro lettore parte da una considerazione relativa al mutamento della prassi funeraria relativa ai suicidi («So che la Chiesa non ammette il suicidio e che in passato ai suicidi veniva negato anche il funerale. Oggi però credo che in alcuni casi venga concesso») e giunge a formulare una precisa domanda: «Per chi fa una scelta del genere, di porre fine alla propria vita, c’è la speranza che Dio ne abbia Misericordia?».Alla domanda risponde con precisione e autorevolezza il Catechismo della Chiesa cattolica: «Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita» (2283). Nei numeri immediatamente precedenti, fra l’altro, il Catechismo dopo aver riaffermato, senza mezzi termini, la gravità oggettiva dell’atto suicida, puntualizza che «gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida» (2282).Generalmente, quindi, la prassi che un parroco è tenuto a seguire, in caso di suicidio, è quella di celebrare i funerali in chiesa, senza porre particolari ostacoli. Si è orientati a presumere, infatti, in chi sia giunto a compiere un gesto estremo, la sostanziale mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, che una condanna morale presupporrebbe.La Chiesa, peraltro, celebrando le esequie anche di chi si è tolto la vita, lascia a Dio il giudizio ultimo sulla persona, affidandola, con un atto di profonda e fondata speranza, all’infinità misericordia di lui. L’impegno prioritario di chi si trova chiamato a celebrare un funerale in caso di suicidio, dunque, non dovrebbe essere quello di porre delle riserve sull’opportunità di celebrarlo, né d’imbastire un’improbabile indagine sulle reali intenzioni e responsabilità del defunto, piuttosto dovrebbe essere quello, di offrire con sensibilità, delicatezza ed equilibrio, una particolare vicinanza ai congiunti, ovviamente senza scivolare in forme di retorica consolatoria che possano sfociare nel rischio di esaltare indirettamente la scelta suicida, che resta un male da non giustificare in alcun modo. Quindi, l’affermazione del lettore relativa al funerale in chiesa dei suicidi: «Oggi però credo che in alcuni casi venga concesso», andrebbe ricalibrata nel senso che le esequie ecclesiastiche dei suicidi vengono oggi, invece, celebrate di regola e non soltanto eccezionalmente.Tuttavia, se dovesse emergere «qualche dubbio» legato alle particolari circostanze nelle quali il gesto estremo è venuto a collocarsi, e si dovesse perciò profilare un fondato rischio di scandalo, il parroco dovrebbe consultare il vescovo sull’opportunità di procedere, o no, alla celebrazione e, poi, sottostare al suo giudizio, come si desume dal can. 1184 del Diritto canonico, che peraltro non fa direttamente riferimento, al caso del suicidio bensì a quello dei «peccatori manifesti, ai quali non è possibile concedere le esequie senza pubblico scandalo dei fedeli». In questo orizzonte si deve probabilmente collocare anche la considerazione della spinosa questione relativa all’eutanasia e alla, sempre più diffusa, cultura che la sostiene. «La tendenziale apertura nei confronti dei suicidi per l’imponderabile influenza di disturbi psichici o altre anomalie, non porta a estendere tout court la concessione dei funerali anche a coloro che hanno praticato l’eutanasia» (M. Pozo, Il riconoscimento del diritto alle esequie ecclesiastiche nella società secolarizzata, in Annales theologici 29[2015]1, 59).In passato, come afferma il lettore, ai suicidi il funerale in chiesa veniva invece di norma negato, per lo stigma teologico e anche sociale che gravava sul gesto suicida e perché si voleva evitare assolutamente che la scelta di togliersi la vita potesse apparire, a qualche soggetto debole, come un esempio imitabile (il pericolo dello scandalo). Il rifiuto della celebrazione delle funzioni funebri per suicidi è documentato fin dal primo millennio con le indicazioni dei concili di Orleans (533) e di Braga (561). La prassi si è mantenuta fino al secolo scorso ed è documentata anche dal can. 1240 § 1, n. 3 del Codice di Diritto canonico del 1917: «Siano privati della sepoltura ecclesiastica, a meno che non abbiano dato qualche segno di penitenza prima della morte… coloro che si uccisero con deliberato proposito». La nuova sensibilità pastorale maturata nel XX secolo, la progressiva consapevolezza dei condizionamenti psichici della libertà e i margini interpretativi offerti dallo stesso Codice di Diritto di canonico del 1917 («…con deliberato proposito»), hanno permesso di anticipare, nella prassi e nella riflessione morale, quella nuova comprensione che ha trovato piena ricezione nel nuovo Codice (1983), che omette di menzionare i suicidi fra i «peccatori manifesti», e nel Catechismo della Chiesa cattolica (1992) che abbiamo citato. Questa sensibilità, tra l’altro, traspare chiaramente in un autorevole testo di teologia morale degli anni ‘50: «La Chiesa non può concedere l’onore della sepoltura a chi, a giudizio umano, si è ucciso liberamente e consciamente (Codice di diritto canonico, canone 1280). Nel dubbio, se vi fosse consapevolezza, il giudizio più mite non sarà soltanto più umano e più cristiano, ma probabilmente anche più giusto. In tal caso bisogna concedere la sepoltura ecclesiastica» (B. Häring, La legge di Cristo, III, Brescia 1959 [ediz. Tedesca 1954], p. 211).