Immigrazione: cosa dice la dottrina della Chiesa?
In questa estate il dibattito sull’immigrazione ha raggiunto toni davvero terribili, con accuse reciproche e fatti drammatici a cui assistiamo. Sulle parole del Vangelo, «ero straniero e mi avete accolto», non ci sono dubbi. È vero però che poi bisogna anche tenere conto delle circostanze in cui le persone si trovano, e agire con buon senso e ragionevolezza facendo i conti con la realtà che spesso è complessa. Vorrei capire, al di fuori delle polemiche e delle invettive reciproche («razzisti», «buonisti») cosa dice il catechismo, cosa dice la dottrina della Chiesa su questo tema?
Alberto Magherini
A cominciare da Pio XII, che affronta l’argomento in più occasioni, tutti i pontefici hanno offerto la loro riflessione sul complesso fenomeno dei migranti, che nei cento anni trascorsi ha avuto caratteristiche differenti e che investe problematiche complesse di ordine etico, politico e sociale. Nonostante i pronunciamenti successivi di Benedetto XVI e di Francesco, il fenomeno trova un punto di sintesi nel n. 2241 del Catechismo della Chiesa Cattolica pubblicato nel 1992, che lo inquadra all’interno della visione cristiana e del rispetto dei diritti e della dignità di ogni uomo. Nella piena consapevolezza di non avere competenze dirette per proporre soluzioni tecniche di natura economico-politica, tuttavia il Catechismo è consapevole che la visione cristiana è in grado di illuminare i temi della realtà sociale al fine di salvaguardare la dignità della persona umana (cf. Giovanni Paolo II, 1982 e SRS 41), per questo fissa alcuni criteri fondamentali.
Il primo riguarda le nazioni ricche che «sono tenute ad accogliere (…) lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita». Detto altrimenti, di fronte al povero e al sofferente non è lecito a nessuno volgere lo sguardo altrove. Per questo è necessario in ogni paese, ad esempio, garantire adeguate strutture di prima accoglienza. Come pure è necessario assicurare una certa rapidità nelle procedure di verifica per determinare chi abbia il diritto di essere accolto e chi debba essere rimpatriato pur sempre in condizioni di sicurezza. Quest’ultimo è un compito fondamentale dello Stato per evitare di favorire fenomeni di clandestinità e di criminalità che danneggiano anche gli immigrati regolari e che, mediante la certezza del diritto, concorre al rispetto dei diritti umani.
Un secondo criterio è indicato dall’inciso che segue il dovere di accoglienza, ovvero «nella misura del possibile». Infatti se alla persona del migrante si deve garantire il rispetto del «diritto naturale» e la protezione, la politica migratoria ha il diritto/dovere di regolare i flussi, definire dei limiti, se necessari, alla permanenza dei migranti in un determinato Paese, tenere conto della situazione e dei bisogni dei Paesi di accoglienza. Nel caso dei barconi che arrivano sulle coste europee, ad esempio, un conto è il dovere di soccorrere delle persone in mare, altra cosa è il garantirne la permanenza nel Paese di approdo, che andrebbe regolata in base ai flussi decisi dai governi e dalle norme di diritto internazionale, quali ad esempio quella sull’asilo politico.
Al riguardo il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa pubblicato nel 2005, specifica al n. 298 che i flussi migratori devono essere regolati «secondo criteri di equità ed equilibrio» in modo che «gli inserimenti avvengano con le garanzie richieste dalla dignità della persona umana», al fine di favorire l’integrazione dell’immigrato «nella vita sociale» del Paese che lo accoglie, nell’orizzonte del bene comune. Si tratta infatti di «coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti» (Giovanni Paolo II, 2001).
Un ulteriore criterio è stabilito quando il Catechismo ricorda che le politiche migratorie devono essere definite «in vista del bene comune», che da Gaudium et spes in poi è sempre dell’intera famiglia umana e non soltanto dello Stato (GS 26), indicando un orizzonte ampio che consideri tutti i fattori legati alle persone e alle società coinvolte. È evidente, infatti, che la necessità dell’immigrazione emerge quando un precedente diritto fondamentale, ovvero quello di poter vivere nella propria terra, è stato violato a causa della mancanza «della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita che allo straniero non è possibile trovare nel proprio paese di origine» (CCC 2241).
A questo aspetto andrebbe dedicata grande attenzione, considerando che la migrazione priva i paesi di origine di forza lavoro, di energie e professionalità importanti, rendendoli ancora più poveri e fragili. Inoltre se «Il diritto della persona ad emigrare – come ricorda la Costituzione conciliare Gaudium et spes al n. 65 – è iscritto tra i diritti umani fondamentali, con facoltà per ciascuno di stabilirsi dove crede più opportuno per una migliore realizzazione delle sue capacità e aspirazioni e dei suoi progetti (…) Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il Beato (ora Santo ndr.) Giovanni Paolo II che “diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione”» (Benedetto XVI, 2013), nonché se si favoriscono «tutte quelle condizioni che consentono accresciute possibilità di lavoro nelle proprie zone di origine» (CDSC 298). Dovrebbe dunque far parte di una seria politica migratoria anche il monitoraggio dei meccanismi della cooperazione internazionale in modo da promuovere un vero sviluppo dei Paesi poveri.
Un ultimo criterio indicato dal Catechismo riguarda i doveri dell’immigrato che «è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, a obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri». La difficoltà o addirittura l’aperto rifiuto a integrarsi nella cultura del Paese di accoglienza, proprio di alcuni gruppi, costituisce dunque un problema oggettivo sul quale è doveroso vigilare. Tale dovere però richiede che il Paese di accoglienza abbia ben chiara la propria identità, per esigere il rispetto dei propri valori culturali, spirituali, sociali e giuridici che lo fondano. Una chiarezza che oggi sembra mancare all’Europa che ha rifiutato di riconoscere le proprie radici cristiane, con conseguenze che, in tema di immigrazione, ma non solo, sono sotto gli occhi di tutti.
Leonardo Salutati