Il suicidio è da condannare anche se fatto per evitare la tortura?
Leggo sempre con interesse gli articoli di Ecclesia e sul numero del 24 maggio scorso mi ha colpito quello sul suicidio dal titolo «Perché la Chiesa non ammette il suicidio?». Nella risposta a questo interrogativo padre Athos Turchi conclude dicendo che «nessuno può suicidarsi per nessun motivo». Mi sono domandato, e gradirei una risposta: è condannabile il suicidio anche quando viene scelto da chi vuole evitare la tortura, cioè da una persona che, consapevole di non poter resistere a lungo al dolore, per evitare di compromettere altre persone, sceglie, se ne ha la possibilità, di suicidarsi?
Piero Bosi
Il lettore chiede una chiarificazione che ci porta su un livello più razionale, ma proviamo a rispondere.
Un principio o una norma sono il criterio in base al quale possiamo valutare unitariamente un fatto che si vive. Per es. la norma che dobbiamo «fermarci col rosso al semaforo» è il criterio per tutti i cittadini su come regolarsi quando vanno per strada, senza una norma sarebbe impossibile fare le stesse cose. La norma prevede, però, l’eccezione che in caso di vita o di morte di un uomo si possa passare col rosso, perché la vita di un uomo è primaria su tutto e fondamento di ogni normativa.
Dunque se la salvaguardia della vita è fondamento di ogni diritto, al punto che in ragione della vita si possono infrangere tutte le norme, dopo non si può dire che in ragione di una tortura o di un dolore io mi posso uccidere, altrimenti si cambia criterio. Non più la vita è criterio e principio di diritto umano ma lo diventa la tortura e il dolore (cf. Discorso di papa Francesco all’«Associazione scienza e vita», 30 maggio 2015).
Il punto però non è questo. Ciò che dice il lettore mostra che nella mentalità odierna la gente ha scisso la propria vita (che comprende la corporeità, le qualità spirituali, le doti naturali, la sua – insomma – concretissima individualità che il corpo disvela così com’è), dall’io decisionale soggettivo e personale, pensando che l’io sia diverso da ciò che uno è in concreto. È una evidente schizofrenia spirito-materiale.
Per esemplificare è come se l’io-persona fosse diverso dalla materialità che siamo, come se l’anima fosse diversa dal corpo, come se la vita avesse due sezioni una della volontà e l’altra della corporeità. Infatti a volte s’invocano i diritti che riguardono il corpo altre volte quelli della libertà di fare o di essere quello che si vuole. Questa schizofrenia che l’uomo di oggi vive si ripercuote su tutta l’esistenza umana non solo nel comportamento sociale, ma anche politico, legale, giuridico, come accade nella legislazione dove le leggi valgono solo per alcuni e per altri no. Per esempio, oggi si dice che ogni essere umano ha diritto di determinare la sua tendenza sessuale come crede meglio, e allora perché quello che la determina verso i minori non ne ha diritto? La pedofilia è senz’altro uno dei crimini maggiori ma non per le ragioni che portano gli opinionisti e gente simile, infatti questi sono in contraddizione perché rivendicano il diritto all’autodeterminazione sessuale ma la negano agli altri. Il male non sta solo in quello che dicono loro, ma nello stravolgimento della vera e reale significanza della sessualità e della corporeità: l’essere umano è perfetto e completo nella correlazione maschile e femminile e la sessualità ha senso nell’amore reciproco e non nel suo uso libero e indiscriminato. Il cosiddetto «diritto di autodeterminazione» a tutto, anche all’eutanasia, è un abuso su se stessi, perché distrugge dentro di sé il senso della propria vita: non si esiste per caso, né si nasce per caso maschi o femmine.
Ma lasciamo questi temi spinosi e torniamo al punto. La vita che invochiamo come principio è ciò che noi siamo e come siamo, è questa ci dà ogni diritto. Ogni volta che l’umanità ha spostato il criterio della propria comprensione in zone diverse, come lo sono state le ideologie, come lo sono gli interessi e il denaro, come il dolore, come le violenze, come la razza, come ogni altra cosa che non-appartiene all’essere umano e alla sua vita, sono sempre iniziate le tragedie, perché: chi gestisce il nuovo criterio? Infatti, supponiamo che il criterio per valutare il vivere o no sia la tortura, chi è il controllore di quale tipo di tortura è quello giusto per suicidarsi? Se fosse il dolore, chi stabilisce quale dolore è quello legale per giustificare il suicidio o l’omicidio? Uno potrebbe rispondere la persona stessa che va incontro al dolore. E allora perché ci meravigliamo quando tanti ragazzi (e non solo) si suicidano: forse che il non senso della vita e la mancanza di speranze future, o la mancanza di amore e di amicizia, o la solitudine e le incomprensioni… sono dolori meno forti di quelli della tortura? E ci meravigliamo anche se uno uccide l’altro e poi si suicida? A me pare normale che uno che è disperato cerchi alla fine di eliminare la causa della sua disperazione. I casi si possono ampliare all’infinito. Il lettore valuti se non è un mondo schizofrenico, mondo dove si negano le norme e nello stesso tempo dove s’invocano sempre più leggi per … applicare le norme. Per me siamo in una società impazzita, che impedisce a tutti una retta cosciente autocomprensione.
Dunque io ritengo che nessuno ha diritto di suicidarsi per nessuna ragione, perché la vita «com’è» è criterio universale di ogni diritto e di ogni valore: si deve togliere la tortura, non giustificare il suicidio. Detto questo: ci possono essere eccezioni? Io penso di no, anche se è comprensibile, e lo capisco in ragione di questa generale follia di autoesaltazione della propria libertà, che il mondo d’oggi porti le persone a tali punti di stress mentale e fisico che alla fine l’individuo non ha più la capacità di essere se stesso, di avere punti di riferimento, di poter pensare e ben ragionare e questo oscuramento psicofisico porta verso atti che non sono buoni, che sono deprecabili, ma per la persona che li vive non hanno alternativa. E anche questo alla fine è un atto della vita dell’uomo, sebbene insensato.
Athos Turchi