Il «Gloria» e il «Credo»: come sono nate le versioni che recitiamo nella liturgia?
A proposito della preghiera del Gloria, nel Vangelo la troviamo: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». Com’è nata la versione di questa preghiera che recitiamo durante la celebrazione eucaristica? E per ciò che riguarda la preghiera del Credo: come mai durante il periodo quaresimale e pasquale il Credo è quello in formato breve anziché quello tradizionale e più lungo?
Marco Giraldi
Per quanto riguarda la traduzione dell’inizio del Gloria, cioè il testo del canto angelico ripreso da Luca 2,14, si trova nel mondo latino tradotto come Gloria in excelsis Deo e in terra pax hominibus bonae voluntatis. Nel mondo bizantino la traduzione, che si rifà ad una particolare lezione di alcuni manoscritti, suona: Gloria a Dio nei cieli altissimi, alla terra pace e agli uomini il divino compiacimento, suddividendo in tre momenti l’acclamazione angelica.
Credo che per il testo latino la traduzione migliore sia quella proposta dal Righetti (1, 240): «Gloria a Dio nel cieli altissimi, e pace in terra agli uomini del suo beneplacito». Ora la traduzione, che tiene conto del testo evangelico esprime bene quanto gli angeli cantano la notte della nascita del Signore: la buona volontà, che qualifica gli uomini davanti al Signore non è, però, la buona disposizione dell’animo umano, ma la benevolenza di Dio nei loro confronti, perché in essi Dio esprime il suo compiacimento. Qui bisogna ricordare le parole della Voce al Battesimo di Gesù e alla sua Trasfigurazione nell’evangelista Matteo. Anche il tentativo attuale di traduzione: «agli uomini che Egli ama» non esprime il senso reale del testo, in quanto amare qui ha un significato più generico rispetto al «compiacimento» che esprime la piena gioia di Dio nei confronti dell’uomo-icona. Un testo dei prefazi delle domeniche del tempo ordinario esprime assai bene il concetto: «Così hai amato in noi ciò che amavi nel Figlio» (VII), cioè a dire in modo particolare la sua totale obbedienza al progetto del Padre.
A proposito del Credo invece possiamo dire intanto che il messale romano di prima edizione tipica non fa alcuna menzione del cosiddetto simbolo degli Apostoli e conserva l’unica formula liturgica comune a tutte le Chiese, cioè il niceno-costantinopolitano, che dall’inizio del secondo millennio fu adottato per intervento dell’imperatore anche da Roma, che prima non lo conosceva per la celebrazione eucaristica.
Ora nella seconda edizione CEI compare il testo del simbolo breve con una precisa annotazione «per l’utilità dei fedeli» e lo si lega specialmente al tempo di Quaresima e di Pasqua. Ordinariamente si ritiene che il simbolo apostolico fosse usato per l’iniziazione cristiana per spiegare ai catecumeni eletti le verità della fede e perché lo imparassero a memoria. C’è chi ritiene che la formula battesimale che si legge nella Tradizione Apostolica di Ippolito (sec. III) debba ritenersi una forma antica di questa professione di fede, che si ritrova anche in autori del IV sec. già strutturata come la conosciamo o in recensioni più brevi, in effetti, però, nel cosiddetto sacramentario gelasiano (sec. V) per la consegna e la restituzione del simbolo da parte catecumeni eletti si ritrova il testo del niceno-costantinopolitano; le chiese di oriente prima e quelle di occidente in seguito, con Roma per ultima (1014), lo utilizzeranno sempre per la celebrazione dell’Eucaristia.
Sicuramente è lecito usarlo, anche se la tradizione ecclesiale non ce ne dà testimonianza, ma almeno si dovrebbe specificare quali siano le necessità dei fedeli per doverlo usare. Comunque sia di per sé non è «normativo» l’uso e come sempre sta al presidente della celebrazione scegliere il testo da pregare, a meno che non sia normativo l’uso che ne fanno i foglietti domenicali, ponendo anche per l’avvento il simbolo apostolico: ma questi «strumenti pastorali» non sostituiscono affatto il messale romano in uso nelle Chiese di occidente.