Il diaconato alle donne: un’ipotesi su cui riflettere?
Non vorrei che questa mia lettera fosse interpretata come una mera «rivendicazione» sull’ormai desueta e inutile battaglia per il sacerdozio alle donne ma sfogliando gli Atti degli apostoli ho rivisitato diverse coppie (Anania e Saffira / Aquila e Priscilla) che mi hanno portato a rileggere anche il finale della Lettera ai Romani dove Paolo saluta in modo veramente profondo e partecipato tutte le persone che hanno lavorato, anzi «faticato» per la diffusione del Vangelo ed in particolare alcune donne. Anche per sfatare una fama di misogino attribuita talvolta a Paolo, chiedo una delucidazione in particolare sul versetto che riguarda la coppia Andronico e Giunia: «Miei parenti», scrive Paolo, «e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me» (Rm 16,7). Non ci è detto in quale carcere, ma è più importante sapere che in carcere c’era anche lei, Giunia, e Paolo deve esserne rimasto talmente edificato che non trova difficoltà alcuna ad attribuirle il titolo di «apostolo». Bello il commento di Giovanni Crisostomo: «Essere tra gli apostoli è già una gran cosa, ma essere insigni tra di loro, considera quale grande elogio sia; ed erano insigni per le opere e per le azioni virtuose. Accidenti, quale doveva essere la filosofia di questa donna, se è stimata degna dell’appellativo degli apostoli!». È appena finito l’anno paolino, siamo nell’anno sacerdotale ma il diaconato alle donne perché rimane uno scoglio insormontabile? Tutto questo con la serenità di chi è consapevole del sacerdozio comune ad ogni battezzato, che… lo Spirito soffia dove vuole e che per esercitare il… «genio femminile» non occorre nessun «abito» particolare. Con un sorriso, grazie per la risposta.
Risponde don Carlo Nardi, docente di Patristica
Eppure Bibbia e Tradizione teologicamente intesa offrono comunque spunti per capire la volontà di Dio nella sua rivelazione. La Chiesa vi torna sempre con amore, curiosità e passione. Dalla quella frequentazione si vedono alcuni frutti. Succede talora che, col tempo, mentalità e usi appassiscano per poi rifiorire in altri contesti e in altri modi. Certo, c’è una essenziale identità nella fede della Chiesa perennemente apostolica. Ma, viva com’è, quella Tradizione, che vuol dire «consegna», conosce anche delle svolte. Ora idee e prassi passano secoli di nascondimento letargico, forse per una loro germinazione; ora invece sono in una dichiarata visibilità, come si rileva nelle vicende umane, ivi comprese quelle divine del popolo di Dio.
Nella logica divina del «vaso di creta» umano che pure accoglie il «tesoro» della grazia, fenomeni di questo tipo si rilevano anche nella storia del ministero cristiano. Intendo nella storia del sacramento dell’ordine – episcopato presbiterato diaconato -, come degli altri ministeri – ordini? almeno così detti alcuni nel passato anche prossimo -, relativi alla parola (lettura, predicazione, profezia, ricerca e comunicazione teologica, insegnamento, esortazione, consiglio: catechisti, lettori), al rito (dalla custodia del luogo di culto al porgere il pane e il vino, e l’acqua, al prete, e poi anche portare la comunione: ostiari, si direbbe sacrestani, esorcisti, accoliti, suddiaconi) e alla molteplice vita comune di carità nella particolare attenzione ai più deboli.
All’inizio del capitolo (Rm 16,1-2) appariva la probabile latrice della lettera ai cristiani di Roma: è Febe da ricevere con tutti gli onori dovuti al mittente della lettera, l’apostolo Paolo. Lei è la diáconos della Chiesa di Cencre, una borgata nei pressi di Corinto. Ora, «diacono», a differenza di doûlos «schiavo», nell’antichità è chi esercita con tutta dignità un servizio di rilevanza sociale, come faceva Ermes Mercurio per gli dèi dell’Olimpo con l’idea d’un andare e venire con premura per l’incarico, l’ufficio, il ministero. Diaconos sembra pertanto in origine un aggettivo sostantivato a due terminazioni una per il maschile e il femminile in -os ed una per il neutro in on. Ragion per cui che si tratti d’un maschio o di una femmina lo si vede da un participio concordato al femminile: nel testo Febe è «la diacono», tra l’altro con funzione sociale o addirittura pubblica di prostátis, «preposta» a particolari garanzie e provvidenze per persone in situazione svantaggiata.
Una sessantina di anni dopo è interessante la testimonianza di un pagano. Verso il 110 in Bitinia, provincia romana nell’odierna Turchia nordoccidentale, il governatore Plinio si trova di fronte ad una bella gatta da pelare: la presenza di numerosi cristiani. Come regolarsi? Nel chiedere lumi all’imperatore Traiano informa sulla situazione di fatto. Dice d’aver avuto a che fare con due «ministre» cristiane, peraltro di bassa estrazione sociale: erano «ancelle», ossia serve, giuridicamente schiave, eppure esercitavano un ruolo pubblico nella comunità: è più che probabile che il latino ministrae traduca il greco le «diacone».
Dalle testimonianze risultano grosse differenze nei riti di ordinazione e nelle modalità di esercizio per luoghi e tempi. Nelle cosiddette Costituzioni apostoliche del quarto secolo il rito di ordinazione è sostanzialmente come quello dei diaconi, con invocazione dello Spirito Santo: ci sono riti in cui è prevista la consegna del calice e delle stesse vesti del diacono, e in altre fonti è chiara la distinzione dall’istituzione di lettori e suddiaconi, tant’è che le diacone risultano presso l’altare con il clero alla stregua dei diaconi (Teodoro di Mopsuestia, il Rito bizantino). Tra l’altro, in un testo siriaco, se il vescovo è immagine di Dio Padre e i diaconi del Cristo servo, come già in s. Ignazio di Antiochia, le diacone sono immagini dello Spirito, che in siriaco, come in ebraico, è un sostantivo. E i preti: come in Ignazio, sono immagine degli apostoli: fuori dell’immaginario trinitario In altre testimonianze sulle diacone appaiono invece e si sottolineano differenze rispetto all’ordinazione dei diaconi.
Quanto all’esercizio di una molteplice «diaconia» da parte di donne, ci sono testimonianze assai varie nell’ambito della Chiesa cattolica: circa il ministero della parola è attestata profezia (figlie di Filippo), testimonianza (parole delle martiri e delle sante in genere nella agiografia), direzione spirituale (detti delle madri del deserto), predicazione (s. Ildegarda), scritti (s. Perpetua,), – si comprende perché ci siano donne «dottori della Chiesa»: e perché non «madri della Chiesa» (Boerresen)? -, canto liturgico del Vangelo (monachesimo latino); circa il servizio all’azione liturgica non solo un contributo all’unzione prebattesimale, proprio delle antiche diaconesse: in un testo siriaco c’è una unzione dei malati (!), conservatasi in un Rituale maronita, nonché la comunione nel mondo monastico; circa la cura pastorale, oltre al vasto ambito della carità secondo i bisogni in conformità alle disposizioni del vescovo o di chi per lui, nel medioevo alcune badesse, – anche loro sulla scia delle diaconesse? nominavano addirittura parroci, e già nella testimonianza di Egeria (quarto secolo) la diaconessa Martana era a capo di monasteri di uomini che avevano rinunciato al mondo.
Un esempio fa pensare: se si diffonde e permane la venerazione per santa Tecla, collaboratrice di Paolo, modello di vita santa per le donne, la quale nei relativi Atti addirittura battezza se stessa, da Tertulliano in poi (Cipriano, Firmiliano), anche nelle disposizioni sulle diaconesse, si nega perentoriamente che la donna possa battezzare: se è difficile capire se si tratti di liceità o validità, fatto sta che la Chiesa antica ci lascia questa consegna. Ora, noi sappiamo dal catechismo, oltre che dalla Gerusalemme liberata, che ogni ostetrica coscienziosa, anzi ogni cristiano e cristiana deve saper battezzare, perché, in assenza di ministro ordinato, deve dare il battesimo a chi si trovasse in pericolo di vita, quell’atto che è azione di Cristo nel tempo della Chiesa per mezzo di chiunque ne sia ministro.
A che fanno pensare allora le direttive negative in merito, talvolta basate sull’argomento che, se Cristo avesse voluto farsi battezzare da una donna, non avrebbe scelto Giovanni, ma la Madonna? Formulo un’ipotesi. La crisi montanista.
Montano, verso il 170, in Asia Minore predicava l’imminente ritorno di Nostro Signore con la Gerusalemme celeste che di lassù sarebbe discesa per l’appunto tra due borgate dell’Asia Minore: quindi tutti pronti e santi, e via dalla Chiesa i peccatori! Queste cose le sapeva per certo perché due diaconesse Prisca o Priscilla e Quintilla avevano il filo diretto con Quello lassù: insomma visioni, rivelazioni e un profluvio di profezie. Anche monsignor vescovo doveva dar retta: loro queste cose le sapevano direttamente da Gesù! E anche due prelati avevano creduto a vaticini del genere, e si erano coperti di ridicolo. Allora i cristiani dell’Asia in sinodo si accorsero che si andava fuori strada. E così l’episcopato del tempo sventò il pericolo che si finisse per intendere la Chiesa santa, perché fatta di santi e non perché ci dà i modi e i mezzi di grazia per farci santi: un punto essenziale era salvaguardato.
Però nella reazione ci dovettero essere delle esagerazioni dettate da paura per novelle Priscilla e Massimilla. Effetto: una messa in ombra del diaconato femminile, se così si può dire.
Nell’ultimo sinodo è stato proposto il lettorato alle donne: quante sorelle in Cristo lo esercitano per incarico temporaneo all’ambone, nella presidenza della liturgia delle ore, nella catechesi, nell’insegnamento della teologia! E perché non l’accolitato? Tanto più che oggi le ministre straordinarie, in certe diocesi anche di volta in volta, come previsto dal Messale, danno la santa comunione. A maggior ragione l’accolitato per incarico temporaneo, in parole povere il servir la messa, ovviamente a tutte le età e in tutte le sue espressioni e funzioni anche in quelle in cui il segno comporta una risposta gestuale del popolo (l’alzarsi in piedi all’incensazione), come del resto la lettura richiede la risposta verbale dell’assemblea, quella del ritornello del salmo.
È questione di un abito? No, se lo s’intende come onorificenza. Sì, se si tratta di quell’unico abito liturgico che vorrei dire d’istituzione apostolica: l’alba, la veste bianca della dignità dell’essere figli e figlie di Dio, dello splendore della grazia battesimale, per il carattere di battezzati e quello di cresimati per una piena abilitazione alla testimonianza anche nei ministeri. È quanto ci ricorda – ricordava? – e si spera ricorderà la seconda domenica di pasqua.
E il diaconato? Pur con analoghe oscillazioni anche dottrinali, il diacono è configurato a Cristo diacono in virtù del sacramento dell’ordine nel suo terzo grado, perché l’ordine conferisce il carattere di ministri di Dio. La direi almeno dottrina certa. Tutto questo avverrebbe in una diacona? Non si può dire di no, se fonti antiche vanno in quel senso, rilevate dal padre Vagaggini, dopo le conclusioni negative del padre Martimort.
Comunque è da cercare ancora nelle fonti, come del resto si fa egregiamente (Scimmi). Ma non solo tra gli antichi. Tra l’altro s. Vincenzo di Lerino (quinto secolo), mentre paragonava lo sviluppo della religione cristiana alla crescita del corpo umano, parlava non solo di membra piccole dei fanciulli che diventano grandi negli adulti, ma anche membra invisibili nei bambini manifeste nei grandi. E non si tratta solo del dente del giudizio. Le fonti antiche, dove non si può pretendere di trovarci tutto, non sembrano dire in modo univoco la sacramentalità del diaconato al femminile. Ma lungi dall’escluderla, talora risultano presupporla. È possibile perciò che in futuro si palesi una certezza tale da ripristinare quella diaconia con la serena consapevolezza della sua sacramentalità. Appurare quella certezza, trattandosi di sostanza di un sacramento, spetta al supremo magistero ecclesiastico, papa eo collegio episcopale secondo la Lumen gentium. Intanto, perché non studiare ancora? Anzi, quello studio, con tutte le condizioni per una ricerca riscontrabile a tutto campo, mi pare doveroso anche come aiuto a cristiani e cristiane, e alla Chiesa nel suo complesso, compreso il supremo magistero.
Un grazie alle care colleghe Elena Giannarelli e Serena Noceti per «diaconia», davvero «in extremis», della loro competenza.