Il cristianesimo in Cina, una storia complessa
Ho letto con emozione la notizia della lettera del Papa ai cattolici cinesi: mi sembra il segno che, anche tra mille difficoltà (come dimostra l’intricata questione della legittimazione dei Vescovi) il Vangelo si sta diffondendo anche nella lontana Cina. Mi piacerebbe capire meglio come è iniziata, e come si è sviluppata, la diffusione del cristianesimo in questo paese apparentemente «impenetrabile».
Valerio Riccucci
Una prima missione in Cina si ebbe sotto il pontificato di Niccolò IV che inviò il francescano Giovanni da Montecorvino, presso l’imperatore Kublai Khan (1260-1294), che apprezzava il cristianesimo. Giovanni arrivò in Cina all’indomani della morte del grande imperatore. Il suo successore Timurleng (1294-1307), anche se non si convertì ala fede cristiana, non pose alcun ostacolo alla missione. Nel 1299 Giovanni costruì la prima chiesa a Pechino e iniziò un lento lavoro di inculturazione, traducendo in cinese i Salmi e il Nuovo Testamento. La sua evangelizzazione in totale solitudine durò 11 anni e si concluse con la elezione ad arcivescovo di Pechino nel 1308. In seguito i missionari, francescani ed anche domenicani, mostrarono una tragica insensibilità verso la cultura cinese. Non davano troppo peso alle mediazioni culturali, ponendo tutta la loro fiducia nella grazia che doveva suscitare conversioni. Non si preoccupavano di acquistarsi la stima e il rispetto dei dotti cinesi. Nella predicazione annunciavano la fede in modo del tutto incomprensibile ai cinesi; nella morale come nel dogma, si mostravano piuttosto rigidi e applicavano alla lettera senza eccezioni le rubriche liturgiche vietando l’uso del cinese durante il culto e imponendo il solo latino.
Le missioni cattoliche in Cina si estinsero progressivamente in seguito a due grossi impedimenti. Innanzitutto, l’islamizzazione della via della seta che comportò un ostacolo insuperabile per l’evagelizzazione in Oriente. Inoltre, le conseguenze della caduta dalla dinastia mongola Yuan e l’ascesa della dinastia cinese Ming (1368) che, refrattaria agli influssi esterni, chiuse le frontiere del nuovo restaurato Impero Celeste. Una chiusura che, a causa dell’isolamento in cui cadde la Cina, si mantenne fino alla seconda metà del sec. XVI, quando i primi missionari gesuiti poterono di nuovo evangelizzare.
I gesuiti seguirono le rotte dei mercanti portoghesi e fecero di Goa il loro quartier generale. Nel 1582 Michele Ruggeri e il suo discepolo Matteo Ricci entrarono in Cina, si insediarono a Pechino e cominciarono il loro lavoro presso gli intellettuali di corte. Essi si prefissero immediatamente queste norme: professare la massima stima per le usanze e la tradizione confuciane; non riferirsi alla superiorità del Vangelo nei confronti della dottrina di Confucio; valorizzare le scienze come metodo di evangelizzazione delle classi colte; inculturare i riti cristiani secondo i linguaggi e le usanze confuciane. Ricci si vestì dapprima come un monaco buddista e poi come un dotto confuciano; divenne noto per la sua conoscenza della letteratura e della storia cinese e in tutto il suo lavoro coltivò un profondo rispetto per le tradizioni cinesi che riteneva una fonte di sostentamento alla sua fede cristiana. La raffinata opera di inculturazione da parte di Matteo Ricci, che rimane ancora oggi l’occidentale più conosciuto e stimato in Cina, permise in seguito ai gesuiti di ottenere dall’imperatore Kangxi l’editto di tolleranza religiosa (1692), che autorizzava la conversione al cristianesimo e concedeva il diritto di costruire chiese e predicare pubblicamente. Ma questo successo scatenò la reazione negativa di Roma che minacciò di scomunica i missionari, riconoscendo nella liturgia un’incompatibilità fra il dogma cattolico e i riti confuciani. Di fronte alla richiesta dell’imperatore di far sottoscrivere ai gesuiti il suo punto di vista sui riti, pena la loro espulsione dalla Cina, Roma intraprese un lungo e durissimo scontro, finché il papa Clemente XIV chiuse le missioni in Cina (1773). Da allora i gesuiti e gli altri missionari dovettero lasciare il posto ai mercanti e alle ambasciate interessati non certo alla inculturazione della fede. Da questo fatto, che è passato alla storia come la Disputa sui riti, si coglie il dilemma di fondo che ha caratterizzato il cattolicesimo in Cina: fedeltà al potere e alle tradizioni locali o fedeltà a Roma. Con la lettera di papa Benedetto XVI c’è da sperare che si apra una nuova fase nei difficili rapporti tra Cina e Roma.