Spesso la fede religiosa viene associata a sentimenti patriottici e di difesa delle tradizioni di una nazione. Ma il valore universale del messaggio cristiano è compatibile con forme più o meno dichiarate di nazionalismo? Non c’è il rischio di strumentalizzare la religione per difendere altri interessi?Lettera firmataRisponde don Francesco Vermigli, docente di Teologia dogmaticaLa domanda che viene rivolta alla rubrica – per quanto tale domanda abbia un respiro ampio e generale – manifesta un’attualità inattesa e davvero indesiderata. Le recenti vicende della guerra in Europa sembrano infatti spingerci a dichiarare senza alcuna esitazione che ogni forma di nazionalismo che poggi sull’ispirazione religiosa sia da evitare e da condannare.In verità, la questione appare un po’ più complessa. Non facciamo qui riferimento alla distinzione vulgata negli studi storici e sociologici tra ciò che va sotto il termine «nazionalismo» e ciò che va sotto «patriottismo». Stiamo dicendo che appare più complessa la questione, se la guardiamo dal punto di vista della fede cristiana. Proviamo ad argomentare.La storia della salvezza è la storia di un popolo in mezzo ad altri popoli; anzi si direbbe con termini biblicamente più cogenti: storia di un popolo in mezzo ad altre «nazioni» o ad altre «genti». Il popolo d’Israele è il popolo amato e, perché amato, è stato scelto dal Signore; una scelta che nasce dall’assoluta libertà della deliberazione divina, insondabile e misteriosa: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli – ma perché il Signore vi ama» (Dt 7,7-8). Il popolo di Israele è il “suo” popolo, il popolo che appartiene al Signore, come sua proprietà: «se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,5-6). Israele ha Dio come un Dio vicino: «quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?» (Dt 4,7-8). Il Signore di Israele è un Dio che osserva le miserie del popolo e ascolta il grido della sua sofferenza (cf. Es 3,7).Nella Scrittura, l’elezione del popolo non si disgiunge, però, dal richiamo costante alla responsabilità per il dono dell’amore di Dio. Così si legge in Amos: «Soltanto voi ho conosciuto tra tutte le stirpi della terra; perciò io vi farò scontare tutte le vostre colpe» (Am 3,2). Un primo punto va dunque trattenuto: la storia della salvezza è una storia di un popolo che è stato scelto, ma la cui scelta si lega al costante giudizio di Dio su quello stesso popolo. Si apprende qui dunque che l’appartenenza al popolo è certamente segno di benedizione, ma si mette in guardia da ogni presunzione o da ogni assolutizzazione che nasca da questa appartenenza. Assoluto è corrispondere alla benevolenza divina e obbedire ai suoi comandi, non tanto appartenere al popolo eletto, che non esime dal giudizio; che anzi appare più esigente proprio quando esso cade su Israele.Questa relativizzazione dell’appartenenza a un popolo si amplifica grandemente con il cristianesimo. Paolo, ovviamente, si pone come il discrimine maggiore su questo punto. Una prospettiva universalistica – già accennata del resto in figure come Melchisedec (cf. Gen 14,18-20 e Sal 110,4) o Ciro (cf. Is 45,1-7) – che risulta siglata dal celebre passo: «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). L’idea del popolo di Dio resiste, anzi acquista un approfondimento teologico («voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato»: 1Pt 2,2); ma ora l’appartenenza al popolo non si misura più sul piano etnico. Piuttosto si appartiene al popolo di Dio con l’atto con cui si aderisce alla fede in Cristo, colui che «di due [popoli] ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva» (Ef 2,14).Sembra dunque che ogni sorta di nazionalismo (anche di patriottismo?) sia altra cosa rispetto all’appartenenza al popolo di Dio; i cui confini sono quelli del genere umano e la cui regola è la concordia, l’amore, la pace. Eppure saremmo ingiusti nei confronti della storia se non notassimo che in alcuni casi il legame del cristianesimo con il patriottismo ha prodotto valori di crescita umana integrale. Si pensi, solo a modo di esempio, cosa abbia significato questo nesso tra cristianesimo e patriottismo nella lotta – spesso, se non sempre, pacifica – per la libertà dal dominio sovietico nelle nazioni oppresse dell’Est Europa.Cosa dunque possiamo dire in conclusione? Credo che la storia della salvezza davvero possa essere la nostra bussola per la valutazione del rapporto tra cristianesimo e nazionalismo. La Scrittura non esprime mai che è assoluta l’appartenenza a un popolo: quando la religione si fa instrumentum Regni, si dichiara invece implicitamente che è la dimensione nazionalistica ad avere il primo posto. Piuttosto, tutta la storia della salvezza – come notava Ratzinger in un suo libro di successo (Fede, verità e tolleranza. Il cristianesimo e le altre religioni del mondo) – può essere simbolicamente rappresentata dalla figura di Abramo e dall’invito a lui rivolto ad abbandonare la sua terra e la casa di suo padre (cf. Gen 12,1); perché la fede in Cristo travalica sempre ogni appartenenza etnica, sociale, politica. Anzi, la fede in Cristo svolgerà il suo compito ogni volta che saprà mantenersi come «riserva critica» (v. Metz…) nei confronti di ogni tentazione nazionalistica, se non addirittura imperialistica del cristianesimo.