I «vangeli dell’infanzia»: verità storica o leggenda?
In questi giorni si ascoltano spesso, alla Messa, i Vangeli che raccontano la nascita e l’infanzia di Gesù. Mi sembra che il tono di questi racconti sia meno «realistico», più «allegorico» o simbolico rispetto a quelli della predicazione, della passione, della resurrezione di Gesù: l’angelo che parla a Maria, i sogni di Giuseppe, gli angeli che chiamano i pastori, i Magi che seguono la stella… Mi è venuta una domanda: come sono stati tramandati questi fatti? Mentre della vita adulta di Gesù gli evangelisti riportano testimonianze più o meno dirette, mi sembra (ma forse è la mia impressione) che per la nascita e l’infanzia si tratti di ricostruzioni «a posteriori» che ricorrono (come avviene spesso nell’Antico Testamento) a strumenti come angeli e sogni per spiegare e rendere comprensibili fatti ed eventi altrimenti difficili da spiegare a parole. È solo una mia impressione? Sto dicendo eresie? Mi piacerebbe se un biblista potesse chiarire questi miei dubbi.
Guido Paoli
Se non avessimo i Vangeli di Matteo e Luca, e nello specifico i primi due capitoli di entrambi, ovvero i «vangeli dell’infanzia», gli unici testi neotestamentari che accennano alla nascita umana di Gesù sono tratti da due scritti di Paolo: la lettera ai Galati e ai Romani. Così scrive l’apostolo in due passaggi brevi ma dal denso significato teologico: «quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio» (Galati 4,4); «il vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore». Le due lettere furono inviati ai rispettivi destinatari negli anni 56/57 (i Galati) e nel 57/58 (i Romani), quindi ben prima della stesura del Vangelo di Matteo e quello di Luca, cioè negli anni tra il 70 e l’85 del primo secolo. Altri testi paolini, come la lettera a Tito, vengono inseriti dalla liturgia del Natale come una sorta di eco teologica del mistero che viene celebrato: «quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini» (Tito 3,4).
Tornando a Matteo e Luca, il lezionario alterna sapientemente i «vangeli dell’infanzia» dell’uno e dell’altro evangelista, anche se lascia al «prologo» del vangelo di Giovanni lo spazio centrale del giorno che celebra la Natività. Si tratta di racconti complessi, con punti in comune ma anche molte differenze. Tanto per accennare ad alcuni elementi, in Luca c’è un annuncio angelico a Zaccaria e a Maria, ma non a Giuseppe, annuncio che è invece presente in Matteo. Questo Vangelo, da parte sua, ricorda l’episodio dell’adorazione dei Magi (oltre alla strage degl’innocenti e la fuga in Egitto), mentre quello di Luca – che tramanda il cantico di Zaccaria e quelli di Maria e di Simeone – l’incontro con i pastori.
Il lettore è colpito anche dalla presenza di angeli, un singolo messaggero divino in schiere («apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”»), oppure dai sogni, spesso accompagnati da un Angelo che rivela il disegno divino. In sostanza, il centro del racconto dei «vangeli dell’infanzia» avvicina il mistero della nascita del Figlio di Dio con percorsi simili e tuttavia differenti.
E tuttavia, non dobbiamo leggere dietro queste pagine il racconto di una leggenda, come ha detto anche il papa Francesco recentemente: «La nascita di Gesù non è una favola! È una storia realmente accaduta, a Betlemme, duemila anni fa. La fede ci fa riconoscere in quel Bambino, nato da Maria Vergine, il vero Figlio di Dio, che per amore nostro si è fatto uomo».
Ciò che troviamo in queste pagine non è dunque una cronaca di avvenimenti (non lo sono mai le pagine evangeliche) ma è invece una profonda riflessione teologica, una profonda e matura meditazione sul mistero dell’incarnazione, ricca certamente di riferimenti alle Sacre Scritture e carica quindi di significati profondi, espressi in un linguaggio evocativo, che suggerisce l’appassionata vicinanza di Dio alla nostra storia di creature fragili eppure degne di essere amate da lui. Quel Dio che dopo aver parlato «molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Ebrei 1,1-2). Quel Dio che in Gesù ha piantato la sua tenda in mezzo agli uomini: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Giovanni 1,18).
In conclusione, vorrei ancora una volta dare la parola al papa Francesco, quando dice: «Lasciamo che il nostro cuore si commuova: non abbiamo paura di questo. Non abbiamo paura che il nostro cuore si commuova! Abbiamo bisogno che il nostro cuore si commuova. Lasciamolo riscaldare dalla tenerezza di Dio; abbiamo bisogno delle sue carezze. Le carezze di Dio non fanno ferite: le carezze di Dio ci danno pace e forza. Abbiamo bisogno delle sue carezze. Dio è grande nell’amore, a Lui la lode e la gloria nei secoli! Dio è pace: chiediamogli che ci aiuti a costruirla ogni giorno, nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nelle nostre città e nazioni, nel mondo intero. Lasciamoci commuovere dalla bontà di Dio».
Stefano Tarocchi