Gesù secondo san Paolo, vero Dio e vero uomo? Una questione delicata
Come sicuramente saprete vi è, anche a causa di un ampio lavoro degli storici sulle origini del Cristianesimo, un dibattito acceso sul fatto che Paolo ritenga Gesù uguale a Dio. Vi sono vari accenni non sempre chiarissimi e dibattuti nelle lettere protopaoline a proposito di questa tematica, mentre il richiamo più certo sarebbe presente nella lettera a Tito. Questa lettera però sembrerebbe non sia stata scritta direttamente da Paolo ma sia una pseudoepigrafia successiva. Arrivo dunque a domandarvi quanto il passaggio presente nella Lettera a Tito (Tt2, 13) possa essere espressione dell’effettivo pensiero di Paolo su Gesù. Molti storici e alcuni esegeti sono ormai concordi nell’affermare che Paolo considerasse Gesù come un’entità divina (tipo un angelo) ma che non fosse come Dio e che avendo accettato di passare dalla condizione umana fino alla morte fosse poi successivamente esaltato da Dio (Fil 2, 6-11). Questa riflessione ovviamente risulta valida a seconda di come siano considerate alcune affermazioni delle lettere protopaoline e se si considera la lettera a Tito come espressione di un pensiero che interpretava la teologia paolina già alla luce della cristologia del Vangelo di Giovanni. Cosa ne pensate?
Lorenzo Banducci
Risponde don Filippo Belli, docente di Sacra Scrittura
La domanda del nostro lettore è su due versanti, uno più storico, ovvero sul valore e autenticità della lettera di Tito, l’altro più prettamente teologico, ovvero sulla piena divinità di Gesù Cristo negli scritti e nel pensiero paolino. Soprattutto questo secondo aspetto richiederebbe moltissimi approfondimenti esegetici e teologici oltreché storici che non possiamo permetterci in queste righe. Possiamo però fare qualche semplice considerazione.
La prima è di ordine ermeneutico. La lettura dei testi biblici è delicata. Si può dire, per semplificare, che è facile attribuire un significato ai testi a seconda di come li si affrontano, a seconda dei propri presupposti e ultimamente dai propri interessi. Detto brutalmente, è facile far dire ai testi quello che vogliamo. La storia dell’esegesi ce ne da numerosi esempi, di modo che a volte c’è una grande confusione. La Chiesa ha sviluppato nel tempo e per esperienza una chiara criteriologia per affrontare i singoli passaggi biblici, fatta salva tutta la ricerca letteraria e storica, sintetizzata nel triplice criterio che troviamo in Dei Verbum 12: il contenuto e unità di tutta la Scrittura, la viva tradizione della Chiesa e l’analogia della fede. È in questo modo che la Chiesa ha recepito nei testi del Nuovo Testamento la chiara affermazione di Gesù come uguale a Dio e a Lui consustanziale. Così anche per i testi di san Paolo: se è vero che l’affermazione della piena divinità (Gesù=Dio) non è presente come tale negli scritti paolini (ma vedi per esempio Rm 9,5), numerosi sono gli indizi, se letti in questa luce, che portano ad avvalorarla: Gesù è Signore (titolo che nell’Antico Testamento è riservato a JHWH), è unico mediatore di giustificazione e di salvezza, è oggetto di venerazione e di culto, è Figlio di Dio, a Lui è dovuta la fede, è Lui che è atteso alla fine dei tempi, tutto è stato posto sotto il suo dominio. Ovvero, tutta la cristologia di Paolo è comprensibile solo se quel Gesù di Nazareth è veramente il Figlio di Dio consustanziale al Padre.
La seconda considerazione è di ordine storico e riguarda la figura di Paolo stesso. Se guardiamo la sua vicenda, ci accorgiamo di un cambiamento di prospettiva inaudito. Ebreo monoteista, e proprio per questo motivo persecutore della Chiesa e dei primi cristiani, nell’incontro con Gesù sulla via di Damasco, ha fatto la grande scoperta della vita che lo ha portato a essere il grande apostolo che è stato: Gesù è il Signore Risorto e in Lui solo Dio ha posto il potere salvifico per tutta l’umanità. Se non è ancora esplicitamente formulata in Paolo una teologia trinitaria – ma ci sono tutti gli elementi per imbastirla – è indubbio che il classico monoteismo giudaico è stato da lui ripensato in forza della rivelazione ricevuta su Gesù come unico Signore e salvatore. Del resto una salvezza – che per Paolo è solo in Cristo – che non fosse totale, reale, divina, non sarebbe tale.
E arriviamo alla lettera di Tito. In essa leggiamo della «attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13). Il testo può essere letto anche come l’attesa della manifestazione della gloria di Dio e del Salvatore Gesù Cristo, distinguendo e non assimilando i due nomi. Quindi di per sé non tutti gli autori sono concordi nell’individuare in questo testo una chiara identificazione di Gesù con Dio. Il dibattito è aperto. Ma appena prima il titolo di «salvatore» è stato attribuito a Dio stesso (Tt 2,10) mentre nell’introduzione della lettera tale titolazione è riservata a Cristo Gesù (Tt 1,3). Sembra quindi che l’autore della lettera non abbia problemi a considerare come salvatore sia Dio che il Signore Gesù, di fatto identificandoli. Lo stesso fenomeno lo riscontriamo nelle due lettere a Timoteo. Ora su queste tre lettere dette «pastorali» c’è un forte dibattito, da un paio di secoli almeno, sulla loro autenticità paolina. Moltissimi ritengono che esse sono successive alla morte di Paolo e quindi pseudoepigrafe, ovvero scritte da qualcuno che non è l’apostolo ponendosi però sotto la sua autorità. Ma anche in quest’eventuale ipotesi, bisogna intendersi su cosa essa possa significare. Non certamente di autori che hanno voluto ridimensionare o correggere il pensiero di Paolo, ma piuttosto, in tale prospettiva, occorre immaginare dei discepoli di Paolo che hanno voluto conservarne l’eredità spirituale, adattando alle nuove situazioni il genuino pensiero paolino. Con una semplificazione, hanno scritto quello che ritenevano Paolo avrebbe scritto in tali situazioni. Solo così potevano arrogarsi il diritto di scrivere in suo nome, solo nella fedeltà al suo pensiero e missione.
Naturalmente tali domande rimangono aperte a discussione e approfondimenti. Tuttavia – e questo è il senso del mio intervento – il particolare si coglie meglio se inserito nella totalità della Rivelazione cristiana, cercando quell’ordine e coerenza senza la quale la Rivelazione stessa sarebbe inintelligibile.