Funerali a chi si è suicidato: perché vengono concessi?
Alcune settimane fa un imprenditore fiorentino ha ucciso la moglie e si è poi tolto la vita; aveva saputo di essere affetto da un male incurabile e ha preso questa decisione per evitare a se stesso la sofferenza dei pochi mesi che gli rimanevano ed alla moglie amatissima il peso dell’assistenza durante la malattia ed il dolore del distacco. Il funerale nella chiesa di San Miniato, a Firenze, è stato molto toccante e l’omelia si è proprio incentrata su questo grande amore che legava la coppia e che è la «spiegazione» del tragico gesto. La mia domanda è: come mai in questo caso non ci sono stati ostacoli al funerale religioso, tra l’altro in forma molto solenne e pubblica, mentre nel «caso Welby», con la morte invocata e cercata per porre fine ad una sofferenza protratta per molti anni, i funerali religiosi sono stati negati?
Grazie mille per il chiarimento che vorrete darmi.
Francesca Perodi Ginanni
Possiamo provare a cercare di comprendere alcuni lati delle questioni in gioco, cominciando a rileggere quanto prescrive la legislazione della Chiesa. Il Codice di Diritto Canonico al canone 1184 indica alcune circostanze in base alle quali un cattolico è privato delle esequie ecclesiastiche, a meno che non abbia dato alcun segno di pentimento prima della morte. Fra queste abbiamo l’apostasia, l’eresia o lo scisma notori. Sono situazioni nelle quali apertamente e pubblicamente è venuta meno la professione di fede della persona: se il battezzato non è tornato indietro dalla sua decisione di abbandonare la fede o la comunione ecclesiale appare coerente che non si dia luogo ad un rito proprio di quella fede che la persona stessa ha rifiutato apertamente.
Altre circostanze riguardano non tanto la professione di fede, quanto comportamenti che contraddicono la vocazione cristiana, tali da far ritenere le persone come «peccatori manifesti, ai quali non è possibile concedere le esequie senza pubblico scandalo dei fedeli» (Codice di Diritto Canonico, canone 1184, §1). Sempre lo stesso canone aggiunge che nei casi di «qualche dubbio si consulti l’Ordinario del luogo, al cui giudizio bisogna stare». La legislazione ecclesiastica lascia spazio a doverose interpretazioni secondo i casi particolari: in questo spazio aperto alle diverse interpretazioni si pongono le diversità notate dalla lettrice.
Proviamo a distinguere le diversità in gioco. La vicenda dell’imprenditore fiorentino Horvat, suicida dopo aver ucciso la moglie, sofferente di una malattia incurabile, ha destato commozione e sconcerto in città: nessuno si aspettava che accadesse un tale epilogo ad una vicenda già dolorosa di suo. Non sappiamo se e da quando il gesto sia stato premeditato oppure deciso improvvisamente, in un momento di acuto sconforto. In se stesso, il funerale celebrato non ha dato adito ad alcuna polemica. Come sottolineano le parole della lettrice, si è trattato di una cerimonia liturgica celebrata e partecipata con sentimento, accompagnata da parole che hanno aiutato a ripensare quanto accaduto alla luce della fede cristiana, che invita sempre ad abbandonarsi alla misericordia di Dio. Inoltre, al di là della partecipazione numerosa dovuta alla notorietà dell’imprenditore, i funerali non sono stati preceduti da nessuna amplificazione mediatica. Si sono svolti secondo la sobrietà dovuta al momento così delicato qual è la nostra morte, in qualunque modo avvenga. Il sacerdote ha potuto celebrare la funzione in una atmosfera prettamente religiosa; le parole all’omelia sono state ispirate dal suo cuore di pastore e dalla sua fede di cristiano. Scrivo tranquillamente queste righe perché lo conosco di persona: sono certo di interpretare correttamente quali siano stati i suoi sentimenti.
La vicenda del dottor Piergiorgio Welby si è svolta su un piano oggettivamente diverso. Da un lato, ha avuto una tale risonanza pubblica da trasportare il dolore e la sofferenza di una persona su un piano di lotta per il riconoscimento a livello legislativo di un atto ben preciso, in qualunque modo lo si voglia chiamare. La differenza, però, non si pone solo su questo livello. Nella sua vicenda dolorosa, Piergiorgio Welby ha mantenuto sino alla fine una coerenza di pensiero chiara e decisa. In forza del giudizio della sua coscienza personale ha chiesto che venisse posta fine alla sua vita, giunta ad un punto limite che lui non giudicava più accettabile. Si è trattato della sospensione di un accanimento terapeutico oppure di un suicidio assistito? Una prima risposta avrebbe dovuto darla la scienza medica. Per quanto ricordi, non credo che sia stata data in modo univoco. Di fatto, tutta la vicenda ha avuto per molto tempo un notevole risalto sui mass media, come poi è accaduto per altre situazioni, tutte molto dolorose e delicate nei loro risvolti, personali e clinici. Di fronte a questa risonanza pubblica, la Chiesa si è pronunciata in modo ufficiale e chiaro.
Quando la moglie di Piergiorgio Welby si è rivolta alla propria parrocchia di san Giovanni Bosco per chiederne il funerale religioso, si è ritenuto opportuno rivolgersi al proprio Ordinario, secondo quanto previsto dal Codice di Diritto Canonico sopra citato. Date le circostanze, mons. Fisichella, Vicario della zona di Roma, non ha ritenuto opportuno che si celebrasse il funerale. In una nota successiva, è stata data una motivazione della decisione presa: «In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2276-2283; 2324-2325). Non vengono meno però la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti».
La nota del Vicariato fa riferimento ad una decisione di coscienza fatta in situazioni di «piena avvertenza e deliberato consenso», presa in una direzione che «contrasta con la dottrina cattolica». Sul valore del giudizio della propria coscienza la Chiesa sa e riconosce che solo Dio può giudicare in verità. Per questo non viene mai meno la preghiera per i defunti, chiunque essi siano e quale sia stata la loro vita: la Chiesa affida tutti alla misericordia di Dio, che accoglie fra le sue braccia chiunque vi si abbandoni. Da un punto di vista esteriore e oggettivo, tuttavia, la decisione di Piergiorgio Welby è apparsa in contrasto con la dottrina della Chiesa, come è formulata nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Ne è derivato il giudizio dell’Ordinario, al quale ci si doveva attenere.
La differenza fra i due casi va compresa nello spazio che ho cercato di precisare con queste distinzioni. Personalmente credo anche che su tutta la dolorosa vicenda di Piergiorgio Welby abbia pesato in maniera determinante la rilevanza mediatica che ne è stata data. E credo, infine, che la Chiesa non debba sottovalutare il disagio mostrato dai suoi fedeli, non tanto per una singola decisione presa, quanto per la fatica a comprendere diversità di comportamento in episodi simili. Da credenti dobbiamo aiutarci l’un l’altro a pensare come il Vangelo della misericordia possa essere vissuto nelle circostanze del mondo di oggi. L’ultima enciclica (Caritas in Veritate) di Benedetto XVI ci guida autorevolmente in questo cammino: vivere la carità nella verità è il compito che Dio ci ha affidato. Che lo Spirito ci guidi tutti quanti e insieme verso una verità offerta in modo sempre più evangelico.