Confessione, quali sono i casi in cui il prete può negare l’assoluzione
Risponde don Francesco Scutellà, docente di Diritto canonico
Vorrei sapere quali sono i motivi per cui il sacerdote può negare l’assoluzione durante una confessione. Grazie se vorrete rispondermi
Marta Giusti
Risponde don Francesco Scutellà, docente di Diritto canonico
Cerchiamo di rispondere al quesito richiamando brevemente i diritti/doveri che fanno capo tanto al confessore quanto al penitente.
Con riferimento al ministro del sacramento, tradizionalmente si afferma che il confessore è giudice e medico: giudice perché soppesa la gravità dei peccati e li «condanna», perché giudica l’integrità della confessione e le disposizioni del penitente; medico, perché deve fare una certa diagnosi della malattia dell’anima, indicare la medicina adeguata, imporre una soddisfazione che aiuta la guarigione, oltre che riparare la giustizia lesa.
Il canone 978 ricorda infatti al sacerdote «che nell’ascoltare le confessioni svolge un compito a un tempo di giudice e di medico» e, «costituito da Dio ministro contemporaneamente della divina giustizia e misericordia», nell’amministrazione del sacramento deve aderire «fedelmente alla dottrina del Magistero e alle norme date dalla competente autorità». Inoltre, secondo il canone 980, «se il confessore non ha dubbi sulle disposizioni del penitente e questi chieda l’assoluzione, essa non sia negata né differita».
Dunque, il confessore deve giudicare delle disposizioni del penitente, e in base a queste disposizione decidere se dare l’assoluzione, oppure se differirla o negarla. La confessione, quindi, non comporta di per sé il diritto di ricevere l’assoluzione, ma spetta al confessore il discernimento sull’effettivo stato di pentimento, sul ripudio del peccato commesso e sul sincero proposito di non tornare a commetterlo. Si potrebbe affermare che impartire l’assoluzione è la norma, e solo se vi sono seri dubbi sul pentimento del penitente – il cui segno più chiaro è il proposito di non reiterare il peccato confessato – l’assoluzione non può essere data. Si tratta di un evento estremo e sofferto e deve essere spiegato al penitente che l’impossibilità di dare l’assoluzione dipende dalla mancanza di quelle disposizioni che sole consentono una valida amministrazione del sacramento. Spetta al sacerdote esprimere un giudizio in merito, ovviamente, non secondo il proprio arbitrio, ma in base all’insegnamento del Magistero, perché il confessore agisce parimenti come ministro di Dio e ministro della Chiesa.
Il penitente, quindi, «per ricevere il salutare rimedio del sacramento della penitenza, deve essere disposto in modo tale che, ripudiando i peccati che ha commesso e avendo il proposito di emendarsi, si converta a Dio» (can. 987).
È bene ricordare che i fedeli hanno il diritto, debitamente disposti, di ricevere dai pastori l’aiuto dei sacramenti (cf. can. 213); diritto che l’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia definisce «inviolabile e inalienabile, oltre che un bisogno dell’anima» (§ 33). Ma questo diritto è appunto vincolato alla disposizione del fedele. Si tratta di diritti e doveri di giustizia fondati nella natura del potere delle chiavi conferito da Dio a suoi ministri di legare, sciogliere e dispensare la misericordia divina quando il penitente non pone ostacoli a essa.
Diritti e doveri che, al di là di ogni formalismo giuridico, sono del tutto coerenti con la precisa volontà di Dio, «che vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tim 2,4).
Si ritiene opportuno ricordare che, a prescindere dalle disposizioni del fedele, alcuni peccati, particolarmente gravi che comportano altresì la scomunica, non possono essere assolti dal «semplice» sacerdote, ma la loro assoluzione è riservata alla Santa Sede: la profanazione delle sacre specie eucaristiche; la violazione diretta del sigillo sacramentale; l’assoluzione del complice in un peccato contro il sesto comandamento; l’aggressione fisica alla persona del Romano Pontefice; l’attentata ordinazione di una donna; la consacrazione di un vescovo senza il mandato pontificio.