Comunione ai divorziati: quali i criteri per cui viene negata o concessa?
La mia domanda potrà apparire un po’ provocatoria, ma mi piacerebbe conoscere il parere di una persona competente su una questione che mi sta a cuore. Mio figlio, divorziato e in seguito risposatosi civilmente, non può accedere alla Comunione, cosa di cui si dispiace moltissimo, mentre alcuni mesi fa, in occasione della morte di Raimondo Vianello, la televisione ha mostrato il Presidente del Consiglio, divorziato, risposato civilmente e di nuovo divorziato, attualmente nell’occhio del ciclone a causa di alcuni scandali sessuali, mentre faceva coram populo (e non in una cappella privata) la santa Comunione, senza alcuna vergogna. Forse il Presidente ha un confessore di manica larga, mentre i sacerdoti con cui ha parlato mio figlio ce l’hanno strettissima. Spero di avere una risposta su Toscana Oggi; intanto ringrazio e saluto.
Paola Maria Ottolini
La decisione di suo figlio, per consiglio di vari sacerdoti, di non ricevere suo malgrado la Comunione, risponde alla situazione in cui si è posto, contraendo il matrimonio civile, di infedeltà continuativa rispetto al primo vincolo coniugale assunto con la celebrazione del matrimonio sacramento. Non si tratta, questo, di un peccato occasionale, di una infedeltà per leggerezza o per abitudine che la coscienza richiama, comunque, al dovere di emendarsi attraverso un pentimento sincero e il proposito vero e fermo di allontanarsi dal peccato e dalle occasioni che conducono a esso.
Il criterio che guida i ministri sacri nel dispensare i sacramenti riguarda la buona disposizione del fedele e l’assenza di proibizioni dal diritto a riceverli (can. 843). Ora, la buona disposizione, essendo una dimensione interiore, si deve sempre presumere se non ci sono elementi concreti che dimostrino il contrario. La proibizione di dare i sacramenti riguarda, invece, la posizione in cui dovesse trovarsi un fedele, per esempio a seguito di una censura irrogata (cann. 1331 e 1332). Pertanto, l’esclusione per legge canonica viene sintetizzata dal can. 915: «Non si ammettano alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena, e quanti dovessero persistere ostinatamente in un manifesto peccato grave». Ovviamente, il giudizio e l’esclusione dalla Comunione non dipende dalla commissione del peccato in sé, per quanto grave e manifesto che sia, per il quale ognuno può sempre ricevere il perdono se ricorrono le dovute condizioni, ma sulla sua irriducibile ostinazione, cioè sulle circostanze esterne che inducono a ritenere che il fedele non voglia retrocedere, come nel caso di una convivenza more uxorio, di pubblico abbandono delle fede cattolica, di adesioni a ideologie inficiate di materialismo o ateismo ecc. Ovviamente, il ministro sacro nel distribuire la comunione non può sapere se il fedele si sia veramente convertito, se abbia fatto il proposito di non ricadere in quel peccato, se abbia preso le distanze dalle circostanze che l’hanno indotto a peccare. Nel caso specifico non è la condizione di divorziato che impedisce l’accesso alla Comunione, ma il permanere in una eventuale unione illegittima successiva al matrimonio sacramento.
Tuttavia, tutti i fedeli che si considerano veri cristiani e veri cattolici, anche se non implicati nella circostanza particolare presentata dalla lettrice, dovrebbero guardare al proprio curriculum di peccati di cui forse è costellata la propria esistenza. Spesso sono peccati che si ripetono. Eppure, sembra che non basti mai l’esperienza del perdono gratuito che facciamo nel sacramento della penitenza quando il dolore per il peccato commesso e, necessariamente, il proposito di non commetterlo più ci fa riottenere la grazia di Dio. Se questo per noi va bene, per gli altri non dovrebbe funzionare così; devono esserci dubbi o sospetti sul loro reale stato di grazia; mentre noi ci sentiamo in regola davanti a Dio, gli altri non sarebbero sufficientemente idonei a ricevere il perdono di Dio, secondo il nostro giudizio sul prossimo. Come vede, Signora, è il nostro stesso giudicare prima di ogni altro a condannarci.
L’insegnamento della Chiesa vale per tutti, senza distinzioni. Lei, Signora, allude nella sua lettera a un personaggio ben identificato che a noi non interessa per la sua notorietà e posizione. Forse lei ha ragione che in certi casi sarebbe più prudente non provocare il giudizio altrui, ma il punto dove lei sbaglia è di voler misurare l’agire morale di suo figlio sull’apparente comportamento di un’altra persona «spiata dalle panche della chiesa» mentre si approssima a ricevere la Comunione. Oggi lei parla e giudica in tal modo la coscienza di un personaggio alla ribalta della cronaca, ma se questo è il suo criterio, quante occasione di giudizio non le saranno sfuggite anche nella sua parrocchia osservando e giudicando gli altri fedeli immersi nelle varie vicende umane! Ponendo la questione, lei conosce benissimo le motivazioni per cui suo figlio non può ricevere la Comunione. Però, le pare che venga fatto un torto a suo figlio se il suo confessore lo illumina con chiarezza sulla sua posizione personale senza commisurarla con i peccati altrui? Oppure sarebbe più contenta se il medico prescrivesse a tutti una stessa medicina senza guardare al bene del malato?
Il giudizio nella sua lettera si estende inevitabilmente anche a un ipotetico confessore da lei definito «di manica larga» come se fosse sicura che esista, nell’esempio da lei addotto, un confessore che abbia dato dei consigli e, soprattutto, come se conoscesse il contenuto della confessione. Se lei è in grado di addentrarsi nella vita spirituale di suo figlio, come sembra, si sforzi almeno di credere quanto sia difficile giudicare il prossimo dalle apparenze, a meno che non si voglia includere nelle categorie politiche anche la fede, i sacramenti ecc. visti come privilegi o eccezioni ad personam.
La Chiesa è sacramento di salvezza per tutti gli uomini e guarda soprattutto ai peccatori con la sollecitudine che le è propria. Essa, nella verità, tutela e dispensa i beni salvifici che il Signore le ha affidato. Non è compito dei sacerdoti coartare le coscienze, né assecondarle, ma solo illuminarle e guidarle. Ciascuno, poi, è padrone insostituibile delle proprie azioni prese nel supremo tribunale della sua coscienza assumendosene, però, la responsabilità sia che profani i sacramenti, sia che conduca una vita dissoluta, sia che giudichi il prossimo.
Concludo la risposta alla sua domanda «un po’ provocatoria» parafrasando le parole di San Paolo ai Romani, non meno provocatorie, però sempre costruttive: «Colui che mangia, non disprezzi chi non mangia; colui che non mangia, non giudichi male chi mangia perché Dio ha accolto anche lui. Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone; ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare».