Come avere un po’ di luce nel buio della malattia?
Buongiorno, approfitto della vostra rubrica per cercare un aiuto. Da anni mi fanno compagnia diverse malattie, croniche e degenerative, che mi comportano tempi di immobilità, tanti interventi, dolore fisico e disagi, come si può immaginare.
Tante volte mi viene detto «offri», ma è un termine che non riesco a capire. E ci ho provato, chiedendo aiuto a fratelli e sorelle più grandi nella fede, a persone che «vivono bene», almeno meglio di me, la sofferenza. Ho letto anche documenti del magistero, padri spirituali oltre che, ovviamente, meditare la Scrittura, chiedendo aiuto al buon Dio, che ben conosce il patire, ma dopo anni mi sembra di essere ancora arrivata a poco…
Non mi illudo di ricevere quell’aiuto impossibile che, mi sa, vado cercando, ma magari mi arriva un po’ di luce tramite voi, e può essere luce per molti altri. Cordialmente
Donatella
Risponde padre Valerio Mauro, docente di Teologia sacramentaria
Gentilisima Donatella, mi permetto di rivolgermi a lei in modo diretto. Lo faccio con titubanza, dopo un po’ di tempo da quando mi è stato richiesto di rispondere alla sua lettera. Ho avuto timore di confrontarmi con la sua sofferenza, usando parole forse corrette … ma quale discorso, persino teologico, può considerarsi corretto se ferisce ancora di più l’umanità che pretende di consolare? Alla fine, mi pongo davanti a lei come un credente dal cuore pieno di domande, verso la vita, verso Dio.
La sofferenza fisica è un male. Ferisce l’integrità della persona, nel corpo e nelle sue relazioni sociali. Siamo tenuti a cercare di eliminarla; è doveroso per il bene della nostra umanità. Sappiamo bene come questo non sia sempre possibile. A volte la vita sembra accanirsi contro di noi, mettendo in questione il senso della nostra esistenza. Eppure, siamo chiamati, prima di tutto, a continuare la vita, con dignità e coraggio, come lei sta facendo da anni, mentre domande continuano ad attraversarle la mente, senza trovare risposte che acquietino il cuore o ne illuminino la strada. Anche l’uomo biblico si trova immerso in questa realtà. Scorrendo le pagine della Scrittura vi troviamo domande e tentativi di risposta: sempre più acute le prime, sempre più inadeguate le seconde. Fino a quando con Giobbe non possiamo altro che metterci la mano sulla bocca, ammettendo di conoscere Dio solo per sentito dire (Gb 40,4; 42,5). Credo, inoltre, come accanto alla sofferenza fisica personale non possiamo omettere di volgere uno sguardo alla sofferenza più spirituale che, fra tanti motivi, nasce e si conferma per l’amore che nutriamo verso la persona amata. Nella realtà storica della vita di questo mondo, amare implica sempre il gesto di aprire una finestra alla sofferenza. Perché la vita dell’altra persona mi coinvolge nell’intimo e la sua sofferenza, qualunque essa sia e quando mai arrivi, diventa per me un appello ad agire, nel tentativo di prendermene cura, ma in ogni caso a condividere. Per questo, quando la vita conduce a un vicolo cieco e il cuore grida verso Dio domande che non ricevono risposte sensate, immagino come attraverso Gesù crocifisso giunga una sola parola: «anch’io». Nulla di più e nulla di meno. Le ferite del Crocifisso sono state ferite accolte per amore, capaci di comunicare amore nella forza dello Spirito.
Donatella cara, quale senso possiamo dare alle parole che le sono state ripetute, perché appaiano umanamente accettabili alla luce della fede, mi trova inizialmente spiazzato. Perché dovremmo offrire a Dio la nostra sofferenza, ripetuta e inevitabile? Il Padre del Signore nostro Gesù Cristo è il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, Dio dei viventi. Suo Figlio Gesù è Inviato per una promessa di vita in abbondanza (Gv 10,10). Eppure, anche lui, il Figlio, si è lasciato coinvolgere in una sofferenza dalla quale con forti grida e lacrime ha chiesto di essere liberato (Eb 5,7), abbandonandosi con atteggiamento filiale alla vita che gli veniva incontro. Non ha offerto la sua sofferenza, ma la consegna di sé stesso, là dove lo conduceva l’amore senza limiti verso i fratelli.
Sotto questa prospettiva mi permetto di rivolgerle ultime parole. Non so quanta luce o consolazione le potranno dare, spero solo che non la feriscano ulteriormente. Continui ad affrontare con fortezza la sua vita, ricordando quella parola che di fronte a tante domande ci giunge dall’alto della croce, dove nella carne del Figlio Gesù il Dio della vita sperimenta nell’amore una sofferenza sino alla fine. Da quella croce ci viene consegnata la possibilità di condividere la sua stessa obbedienza alla vita, rivestendoci dell’umanità di Cristo, per usare le parole di Paolo (Gal 3,27). La nostra vita in comunione con Cristo, vissuta in obbedienza di fede: questa vita vissuta siamo chiamati a mettere davanti a Dio come offerta a lui gradita.